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Vagina Museum: l’abbattimento dello stigma e la Cunt Art degli anni Settanta


Ha aperto a Londra il Vagina Museum, che si propone di diffondere consapevolezza sull’anatomia della vagina e la sua salute e di combattere stigmi politici che la riguardano

L’obiettivo è anche quello di “sfidare il comportamento etero e cisnormativo” e proporsi come centro di discussione su diritti delle donne, LGBT+ e femminismo.

Vagina Museum

Il museo educativo è nato dall’idea di Florence Schechter che ha tratto in parte ispirazione da una controparte già esistente: il Museo fallologico islandese che raccoglie la più vasta collezione di peni animali al mondo. Tuttavia, questo museo nello specifico vuole essere una vera e propria enciclopedia biologica dell’organo sessuale maschile, il Vagina Museum invece si concentrerà sull’anatomia umana e indagherà temi politici e sociali come il controllo del corpo esercitato dal patriarcato nei confronti delle donne.

A breve ospiterà la prima esposizione: “Muff busters: i miti sulla vagina e come combatterli”. Si tratta di un gioco di parole, dove “muff” indica colloquialmente i peli pubici e “busters” è parte del titolo del celebre film Ghostbusters. Come ha raccontato al Guardian la curatrice della mostra, Sarah Creed, “uno dei miti su cui si concentra è quello, per l’appunto, che i peli pubici non siano igenici. Al contrario”.

Il museo e la mostra in particolare intendono rivolgersi a tutti, a partire dalle donne che per stigma sociale, tabù e narrazioni che gravano sulla vagina, si vergognano del proprio corpo.

A questo proposito, è interessante catapultarci nel passato, molte artiste a partire dai primi anni Settanta hanno lavorato con l’immagine della vagina.


I piatti a forma di vulva-farfalla del Dinner Party

Judy Chicago, realizza una delle installazioni più monumentali degli anni Settanta: The Dinner Party. È un immenso tavolo dalla forma triangolare con trentanove ospiti commemorate tramite dei piatti in porcellana a forma di vulva. Altri novecentonovantanove nomi di donne compaiono sul pavimento, l’opera si pone l’obiettivo di scardinare l’egemonia storica maschile, elogiando le figure femminili: dalla Preistoria all’Impero Romano, dalla Cristianità alla Riformazione e dalla Rivoluzione americana alla Rivoluzione femminile.

Le immagini di vulve promuovono le differenze sessuali femminili e si fanno espressione della liberazione delle donne

Il messaggio della storia al femminile che l’artista vuole sviluppare si erge sulla convinzione secondo la quale la sopraffazione delle donne si fonda da sempre sulla differenza fisiologica e sul possesso della vagina. I piatti si fanno espressione simultaneamente della differenza come motivo di soprusi e risorsa di unicità femminile.

Questo puntare sulla differenza e sulla specificità dell’identità sessuale femminile come qualità e non più come motivo di inferiorità sociale, costituisce il capovolgimento tipico dei valori tradizionali portati avanti dalla prima generazione di femministe.

Il graduale distaccamento delle figure farfalle-vulve dal piatto rappresenta le conquiste raggiunte dalle donne e la volontà di riscattarsi dalla loro posizione subalterna condizionata dalle norme sociali stipulate dal patriarcato o l’ottenimento di importanti traguardi in campo artistico, scientifico, medico e letterario. Questo allontanamento progressivo è metafora dello sforzo che si genera dall’impegno per rimodellare la società, allo stesso tempo, il distaccamento vuole simboleggiare la violenta repressione fisica e psicologica a cui le donne che faticano per farsi strada in una istituzione maschile sono solitamente sottoposte. Questi piatti, prima semplicemente decorati e poi tridimensionali e scultorei, rimangono in ogni caso ancorati alla loro base: le farfalle-vulve non sono libere dai pregiudizi e dal dominio culturale patriarcale.

Il piatto-vulva dedicato a Emily Dickinson, The Dinner Party

Nel 1973 la critica americana Cindy Nemser inventa il termine cunt art per definire l’arte femminista che utilizza l’iconografia della vulva

Nelle arti figurative, il corpo femminile è stato una superficie sperimentale dove l’identità e integrità del soggetto sono state occultate. Le immagini delle donne, costruite da uno sguardo maschile per la visione maschile, hanno contribuito alla formazione di un paesaggio visuale quotidiano caratterizzato dalla loro onnipresenza nel mondo dell’arte, della fotografia e del cinema, così come nel panorama mediatico, pubblicitario e della moda. Tuttavia, l’oggettificazione ha causato una perdita di identità delle donne.

Nel 1970, le femministe affermano la propria soggettività attraverso il riconoscimento in positivo del proprio sesso come parte determinante e centrale del corpo biologico.

Il piacere sessuale, parallelamente alle rivendicazioni sociali quotidiane, diventa per la donna una delle forme più importanti della sua libertà. Attraverso l’iconografia della vagina, le artiste si oppongono all’oggettificazione e alla subordinazione del proprio sesso.

La rappresentazione della vulva è universale: diventa l’organo genitale di tutte le donne. Mentre la raffigurazione abituale (pornografica) prevede un sesso femminile esibizionista e passivo, alcune artiste si propongono di raggiungere una forma di pudore attraverso l’eliminazione della perversione sessuale e la creazione di un contesto diverso dove la forma acquisisce una funzione critica o poetica.

Hannah Wilke realizza degli oggetti nei primi anni Sessanta caratterizzati dalla presenza di sporgenze e orifizi che possiedono una esplicita connotazione sessuale.

Alcune artiste più giovani hanno reso ironica l’anatomia femminile come Lauren Lesko con Lips del 1993 dove i genitali “parlano” della sessualità femminile attraverso il piacere sensoriale e sensuale di un materiale come la pelliccia, simbolo della classe agiata e di vanità femminile, oppure Millie Wilson con la serie Wigs dove l’artista utilizza immagini “scientifiche” dei genitali di alcune lesbiche per sovvertire lo svilimento delle donne omosessuali perpetuato anche in campo medico.

Le prime pratiche femministe prendono il loro impeto dal desiderio di sfidare le rappresentazioni misogine secondo le quali le donne vengono percepite come meri oggetti sessuali per il piacere maschile

Le artiste sottolineano l’importanza di contrastare queste tendenze attraverso la produzione di immagini positive femminili. Le forme astratte e suggestive di Judy Chicago sono in contrasto rispetto ad altre artiste femministe come Laurie Anderson, Lynn Hershman e Martha Wilson che, con un forte senso di ironia, interrogano le modalità con le quali il mito della bellezza e la predominanza di una visione maschile hanno reso le donne degli oggetti e conseguentemente sminuito la loro percezione di sé.

Verso la fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, la maggior parte delle artiste rifiuta la celebrazione di immagini positive femminili in favore di una critica che manifestano nei confronti dello sguardo maschile. Carrie Mae Weems nella fotografia Mirror, Mirror del 1986 espone l’oggettificazione patriarcale e i suoi effetti ideologici, inoltre gioca con il mito di Biancaneve per evidenziare il razzismo insito nel presupposto implicito di bellezza occidentale. Nell’ultimo progetto di Wilke, Intra Venus del 1992, l’artista, che stava morendo di cancro, appare senza veli in pose tipiche sia dei nudi femminili dell’arte occidentale che di riviste popolari come Playboy.

L’approccio “biologico” ha permesso alle donne di riconoscere l’affinità delle loro esperienze e il ruolo inferiore all’interno della società, queste condivisioni hanno consentito la costruzione di una cultura politica femminista. Tuttavia, è necessario specificare che la simbologia visuale non deve essere semplificata all’essenzialismo biologico, diversi critici hanno riscontrato infatti numerosi problemi circa queste modalità rappresentative.

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