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KUBE

Io ho un nome: Chanel Miller e Franca Rame

Non nascondo che per riportare questi fatti ne sono uscita devastata emotivamente.


Ma va bene così, come si fa del resto a non rimanere scossi di fronte alla brutalità di una violenza sessuale? Come si fa a dormire sonni tranquilli?


La violenza non si esaurisce nel momento in cui si viene penetrate brutalmente senza consenso, è ingenuo pensare che il peggio sia passato: se le membra sono doloranti, immaginate la psiche. I sensi si spengono e ti senti tremendamente sporca, il flusso dell’acqua pulita sulla pelle è inutile: è dentro che ci si deve ripulire.


E il processo? Molte vittime non si avvicinano nemmeno per mancanza di prove esaustive, non troveranno mai giustizia. Chi invece ha l’onore di arrivarci subisce una gogna mediatica, una violenza verbale perpetrata dagli avvocati dello stupratore, talvolta dal giudice: si rivive la giornata dello stupro un milione di volte: cosa stavi facendo? Cosa hai mangiato, cosa indossavi, ti riconosci in questa foto, cosa hai provato?


Perché vedete, non mancano le domande poste con il solo scopo di abbattere in ogni modo la persona, di umiliarla: sei insulsa. E quali sono le prove? L’immagine del tuo corpo nudo, svenuto, l’immagine della tua vagina insanguinata, in un’aula, di fronte ai familiari e ai media.

Il tuo corpo viene violato una infinità di volte: prima gli stupratori, poi i media, poi le prove.




Il brano che ora reciterò è stato ricavato da una testimonianza apparsa sul “Quotidiano Donna”, testimonianza che vi riporto testualmente


Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce… la parola. Prendo coscienza delle cose, con incredibile lentezza… Dio che confusione! Come sono salita su questo camioncino? Ho alzato le gambe io, una dopo l’altra dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso?


È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare… è il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Perché me la storcono tanto? Io non tento nessun movimento. Sono come congelata.


Oltre a quello che mi tiene, ce ne sono altri tre. Li guardo: non c’è molta luce… né gran spazio… forse è per questo che mi tengono semidistesa. Li sento calmi. Sicurissimi. Che fanno? Si stanno accendendo una sigaretta.


Quello che mi tiene da dietro, tende tutti i muscoli… li sento intorno al mio corpo. Non ha aumentato la stretta, ha solo teso i muscoli, come ad essere pronto a tenermi più ferma. Il primo che si era mosso, mi si mette tra le gambe… in ginocchio… divaricandomele. È un movimento preciso, che pare concordato con quello che mi tiene da dietro, perché subito i suoi piedi si mettono sopra ai miei a bloccarmi.


Mi scopro a pensare cosa dovrebbe fare una persona in queste condizioni. Io non riesco a fare niente, né a parlare né a piangere… Mi sento come proiettata fuori, affacciata a una finestra, costretta a guardare qualche cosa di orribile.


Con una lametta mi tagliano il golf, davanti, per il lungo… mi tagliano anche il reggiseno… mi tagliano anche la pelle in superficie. Nella perizia medica misureranno ventun centimetri. Quello che mi sta tra le gambe, in ginocchio, mi prende i seni a piene mani, le sento gelide sopra le bruciature…


Ora… mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si dànno da fare per spogliarmi: una scarpa sola, una gamba sola.


Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena.

Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare.


“Muoviti, puttana. Fammi godere”. Io mi concentro sulle parole delle canzoni; il cuore mi si sta spaccando, non voglio uscire dalla confusione che ho. Non voglio capire. Non capisco nessuna parola… non conosco nessuna lingua. Altra sigaretta.


Ora è il turno del secondo… i suoi colpi sono ancora più decisi. Sento un gran male.


“Muoviti, puttana. Fammi godere”.


È il turno del terzo. È orribile sentirti godere dentro, delle bestie schifose.

“Sto morendo, – riesco a dire, – sono ammalata di cuore”.


Poi sento che mi muovono. Quello che mi teneva da dietro mi riveste con movimenti precisi. Mi riveste lui, io servo a poco. Si lamenta come un bambino perché è l’unico che non abbia fatto l’amore… pardon… l’unico, che non si sia aperto i pantaloni, ma sento la sua fretta, la sua paura. Non sa come metterla col golf tagliato, mi infila i due lembi nei pantaloni. Il camioncino si ferma per il tempo di farmi scendere… e se ne va.


Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti. È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca.


Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani


Il 17 gennaio 2015 era una tranquilla sera di sabati a casa. Mio padre aveva preparato la cena e io sedevo al tavolo con ma sorella minore che era in visita per il fine settimana


Stavo lavorando a tempo pieno e si stava avvicinando il momento di andare a dormire. Avevo programmato di stare a casa da sola a guardare la tv e a leggere, mentre lei andava a una festa con le sue amiche. Poi ho deciso che era la mia unica notte con lei, che non avevo nulla di meglio da fare quindi, perché no, c’è una stupida festa a dieci minuti da casa, ci vado, avrei ballato come una matta e messo in imbarazzo la mia sorellina.


La cosa successiva che ricordo è di essere su una barella in un corridoio. Un agente mi spiegò che ero stata aggredita. Quando, finalmente, mi è stato dato il permesso di usare il bagno, ho abbassato i pantaloni da ospedale che mi avevano dato, ho cercato di abbassare le mutande e non ho trovato nulla. Ho guardato in basso e non c’era niente. Il sottile pezzo di tessuto, l’unica cosa tra la mia vagina e tutto il resto, mancava e tutto in me fu ridotto al silenzio.


Mi è stato chiesto di firmare delle carte su cui c’era scritto vittima di stupro e ho pensato che fosse successo davvero qualcosa. I mie vestiti sono stati sequestrati e io sono rimasta nuda mentre le infermiere tenevano un righello vicino a varie abrasioni sul mio corpo e le fotografavano. Mi sono stato inseriti molti tamponi nella vagina e nell’ano, aghi per le iniezioni, pillole, ho avuto una Nikon puntata dritta tra le mie gambe spalancate. Ho avuto dei lunghi becchi appuntiti dentro di me e mi hanno colorato la vagina con una fredda vernice blu per controllare la presenza di abrasioni.


Volevo togliermi il mio corpo come una giacca e lasciarlo all’ospedale con tutto il resto.

Quella mattina, tutto quello che mi hanno detto è che ero stata trovata dietro un cassonetto, potenzialmente penetrata da un estraneo. Ma per adesso sarei dovuta andare a casa per rientrare nella mia vita normale. Immagina di rientrare nel mondo con quell’unica informazione.


Un giorno stavo controllando le notizie sul mio telefono e mi sono imbattuta in un articolo. In esso ho appreso per la prima volta di come sono stata trovata priva di sensi, coi capelli disordinati, la lunga collana avvolta attorno al collo, col reggiseno tirato fuori dal mio abito, l’abito tirato giù sulle mie spalle e tirato in su fin sopra i fianchi, che ero nuda dal sedere in giù fino agli stivali, con le gambe spalancate e che ero stata penetrata da un oggetto estraneo da qualcuno che non riconoscevo. È così che ho saputo quello che mi è successo, seduta alla mia scrivania al lavoro mentre leggevo le notizie. Ho saputo cosa mi è successo nello stesso momento in cui tutto il resto del mondo lo ha saputo. Mi aveva tolto le mutande, le sue dita erano state dentro di me. Ho continuato a leggere. Nel paragrafo seguente ho letto una cosa che non perdonerò mai: ho letto che secondo lui la cosa mi è piaciuta.


A volte penso che se non fossi andata alla festa, questo non sarebbe mai successo. Ma poi ho capito, sarebbe successo lo stesso, solo a qualcun altro.


Non hai mai menzionato che io avessi dato il consenso.


Appresi ancora una volta, dai notiziari, che il mio sedere e la mia vagina erano completamenti esposti all’aperto, che i miei seni erano stati palpeggiati, che mi erano state infilate dentro delle dita assieme ad aghi di pino e terra, che la mia pelle nuda e la mia testa stavano sfregando sul terreno dietro a un cassonetto, mentre uno studente del primo anno con un’erezione si stava strofinando sul mio corpo seminudo e privo di sensi.


Mi è stato detto che lui aveva assunto un avvocato potente, esperti testimoni, investigatori privati che avrebbero cercato di scoprire dettagli della mia vita privata da usare contro di me, per trovare punti deboli nella mia storia, per annullare me e mia sorella, per dimostrare che questa aggressione è stata, in effetti, un fraintendimento.


Lui può dire tutto quello che vuole, nessuno lo può contestare. Io non avevo potere, non avevo voce, ero indifesa. La mia perdita di memoria sarebbe stata usata contro di me.


Dopo l’aggressione fisica sono stata aggredita con domande fatte apposta per attaccarmi, per poter dire vedete, i suoi fatti non collimano, è fuori di testa, in pratica è un’ alcolizzata, probabilmente voleva rimorchiare, lui è un atleta, no, erano entrambi ubriachi, vabbè, le cose che ricorda all’ospedale sono successive al fatto, perché tenerne conto, Brock ha molto da rischiare, per cui sta passando davvero un brutto momento.


La verità ha vinto, la verità ha parlato per se stessa.


Tu sei colpevole. Dodici giurati ti hanno dichiarato colpevole di tre capi di accusa oltre ogni ragionevole dubbio. E io ho pensato che finalmente fosse finita, finalmente si prenderà la responsabilità di quello che ha fatto, si scuserà sinceramente, entrambi andrei avanti e staremo meglio. Poi ho letto la tua dichiarazione.


L’alcol non è una scusa. È un fattore? Si. Ma non è stato l’alcol a spogliarmi, a mettermi le dita nella vagina, a trascinare la mia testa sul terreno mentre ero quasi completamente nuda. Aver bevuto troppo è un errore da dilettante che io ammetto, ma non è un crimine. Eravamo entrambi ubriachi, la differenza è che io non ti ho tolto pantaloni e mutande, non ti ho toccato in modo inappropriato per poi scappare.

Il tuo crimine non è aver bevuto del whisky. Togliermi le mutande e gettarle via come un incarto di caramelle per inserire le tue dita nel mio corpo, è qui che hai sbagliato.


Non sono solo una vittima ubriaca alla festa di una confraternita trovata dietro un cassonetto, mentre tu sei il nuotatore panamericano in un’università di punta, innocente fino a prova contraria, con così tanto da perdere. Io sono un essere umano che è stato ferito irreversibilmente.


Non parlare del triste modo in cui la tua vita è stata stravolta perché l’alcol ti ha fatto fare cose brutte. Cerca di capire come assumerti la responsabilità per la tua condotta.


L’agente della libertà vigilata ha preso in considerazione il fatto che lui abbia abbandonato una borsa di studio per il nuoto duramente guadagnata. Quanto veloce Brock sia nel nuoto non diminuisce la gravità di quello che è successo a me e non dovrebbe diminuire la severità della sua punizione. Il fatto che Brock fosse un atleta in un’università privata non dovrebbe essere considerato come un diritto alla clemenza, ma come un’opportunità per mandare il messaggio che l’aggressione sessuale è contro la legge a prescindere dalla classe sociale.


Anche se non posso salvare ogni barca, spero che parlando oggi voi abbiate assorbito una piccola quantità di luce, la piccola consapevolezza che non vi possono azzittire, la piccola soddisfazione di aver ricevuto giustizia, una piccola assicurazione che stiamo andando d qualche parte, e la grande, grande consapevolezza che siete importanti, incontestabilmente, siete intoccabili, siete belle, dovete essere apprezzate, rispettate, innegabilmente, in ogni minuto di ogni giorno, voi siete forti e nessuno ve lo può portare via. Alle ragazze ovunque si trovino, io sono con voi. Grazie.


Il primo pezzo appartiene a Franca Rame: è il monologo scritto nel 1975 intitolato Lo Stupro


Mi sono permessa di riassumerlo, vi consiglio di leggere il monologo completo.


Sette minuti di sensazioni soffocanti, che negli anni Ottanta l’attrice portò in televisione, alla RAI, davanti a milioni e milioni di persone, in anni in cui di violenza sessuale si parlava troppo poco. È proprio per evitare i soprusi e le violenze anche al momento della denuncia che Franca Rame disse di aver preso il racconto da una testimonianza che aveva letto su Quotidiano Donna. Invece, ad aver subito violenza era stata proprio lei. Ha dimostrato con la sua arte che era più forte di ogni violenza e che non si sarebbe mai arresa al silenzio politico ed esistenziale.


Il 9 marzo 1973, Franca Rame, all’epoca molto impegnata nell’attività di Soccorso Rosso in favore dei carcerati e in particolare dei detenuti di estrema sinistra, fu aggredita da alcuni sconosciuti a Milano, in Via Nirone, fatta salire con la forza su un furgone e sottoposta a violenza carnale.


L’azione contro Franca Rame fu opera di stupratori fascisti.

Inizialmente gli autori del gravissimo episodio erano rimasti sconosciuti, anche se era più che probabile attribuire il fatto all’estrema destra. Nel 1987, un ex neofascista aveva dichiarato di aver appreso in carcere che il principale responsabile dell’aggressione a Franca Rame era stato Angelo Angeli e che l’azione era stata suggerita da alcuni ufficiali dei Carabinieri della Divisione Pastrengo all’epoca coalizzati con gli esponenti di estrema destra. La brutale aggressione era stata suggerita da ufficiali dell’Arma dei carabinieri.


Biagio Pitarresi ha raccontato che l’azione contro Franca Rame era stata in un primo momento proposta proprio a lui, ma egli si era rifiutato ed era quindi subentrato Angelo Angeli il quale aveva materialmente agito con altri camerati, fra cui un “certo Muller” e un “certo Patrizio”.


Non c'è mai stata nessuna condanna: a 25 anni dal fatto, solo la prescrizione.

Franca è passata all'orrore di tutte le donne, raccontando le loro violenze, i soprusi che spesso subiscono persino al momento della denuncia Lei ha goduto? Ha raggiunto l’orgasmo? Se sì, quante volte?, scriveva nella presentazione del suo monologo, riportando le parole di avvocati, poliziotti, medici e delle loro perizie, per non farle sentire sole.



Io ho un nome è un libro scritto da Chanel Miller con lo scopo di indagare le problematiche relative alla cultura e al sistema giudiziario e di testimoniare come il trauma della violenza, fisica e processuale, si possa curare con il potere delle parole


Conosciuta come Emily Doe, ha attirato l’attenzione in tutto il mondo con una lettera indirizzata all’uomo che l’ha aggredita sessualmente: Brock Turner.


Anche in questo caso mi sono permessa di riassumere la lettera che è presente alla fine del suo libro.


Una notte di gennaio, dopo una festa nel campus della Stanford, Turner - il classico bravo ragazzo, bello, atletico e intelligente - ha abusato di lei. Emily era ubriaca. Quando si è svegliata, il giorno dopo, non ricordava nulla.


Il giovane, ritenuto colpevole di tutte le accuse, è stato condannato a soli sei mesi poi ridotti a tre. Mentre a Emily non è stato risparmiato l’isolamento e la vergogna destinati alle vittime di stupro. Il processo non le ha reso giustizia, rivelando invece con quanta facilità in casi come questo la responsabilità e il danno ricadano sul più debole. Ora, riappropriandosi del suo vero nome, Chanel Miller, scrittrice e artista, decide di raccontarsi nel memoir Io ho un nome (uscito per La Tartaruga, con la traduzione di Francesco Vitellini).


Le parole della ragazza sono state una sorta di manifesto per tutti coloro che hanno vissuto la sua stessa esperienza.

La lettera di Miller ha sbalordito i lettori con la chiarezza della sua voce, l’acuità della sua rabbia e l’ampiezza della sua empatia nei confronti di coloro che hanno bisogno di sostegno. La sua storia offre ad altre vittime un linguaggio condiviso; Miller ricorda di aver ricevuto a sua volta migliaia di lettere di supporto da donne che raccontano le loro storie.


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