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L’8 settembre 2020, sul sito ufficiale degli Academy Awards, è comparso un avviso che ha suscitato numerose riflessioni critiche sull’inclusività nel mondo del cinema. Con un lungo post scritto l’Academy annunciava infatti nuovi criteri di eleggibilità volti ad aumentare rappresentazione e inclusione per quanto riguarda i film candidabili al premio per Miglior Film, ispirandosi al modello inglese di diversità adottato per esempio dai BAFTA. Sul sito si legge inoltre che questi standard verranno adottati solo a partire dal 2024, mentre per le edizioni degli Oscar 2022 e 2023 sarà comunque richiesto di compilare un form in candidatura basato su questi criteri solamente però in forma confidenziale.
I nuovi requisiti sono divisi in quattro gruppi. Il Gruppo A prevede che almeno uno degli attori principali o secondari con un ruolo significativo provenga da un gruppo etnico sottorappresentato o che almeno il 30% degli attori in ruoli secondari o minori provengano da almeno due dei seguenti gruppi sottorappresentati: donne, minoranze etniche, LGBTQ+, persone con disabilità fisiche o che la trama principale o il tema e la narrazione abbiano come focus uno di questi gruppi. Il criterio B prevede invece diversità nel reparto creativo e in generale dietro le quinte, il criterio C richiede che vengano offerti internships e opportunità lavorative a persone appartenenti ai gruppi marginalizzati e il criterio D prevede per ultimo che nei campi di marketing, distribuzione e pubblicità del film candidato siano presenti persone appartenenti a questi gruppi.
Come anticipato, le nuove regole dell’Academy hanno scatenato numerose polemiche, c’è chi le acclamava per la loro potenziale possibilità di allargare la rappresentazione tanto agognata e c’è chi invece gridava alla dittatura del politicamente corretto che avrebbe rovinato la settima arte. In realtà, ad una lettura più approfondita, è emerso che la gran parte dei film candidati a Miglior film (ricordiamo infatti che queste regole investono solo una delle 23 categorie principali), negli ultimi anni specialmente, sopravvivrebbe a queste regole: The Irishman, Green Book, Piccole Donne e Joker sono solo alcuni esempi di film che soddisferebbero i nuovi requisiti.
In ogni caso, il problema della rappresentazione nei media mainstream è reale e si stanno facendo solo negli ultimi anni dei piccoli passi seppur discutibili per portare diversità sullo schermo. Se gli Oscar ormai non sono sinonimo di qualità cinematografica, comunque riflettono i cambiamenti nella società e nell’industria audiovisiva generale e pertanto meritano di una particolare attenzione.
Tra le tante categorie quasi assenti dalla rappresentazione nel cinema mainstream c’è indubbiamente la comunità LGBTQ+. Rachel Bays narra come nel corso della storia la rappresentazione negativa della comunità nei film abbia influenzato il modo in cui la società guarda ad essa. La studiosa spiega che durante il periodo della Hollywood classica, tra i primi anni ’20 e la fine degli anni ’50, era diffuso quel fenomeno che prende il nome di “gay coding” e che indica una maniera indiretta di rappresentare personaggi omosessuali (quasi sempre uomini) attraverso stereotipi o modi di comportamento: indossare un profumo, muoversi delicatamente, vestirsi in modo grazioso, essere debole fisicamente rispetto al protagonista maschile erano tutti segni che alludevano all’omosessualità. Ci troviamo qui infatti proprio gli anni del cosiddetto “codice Hays”, un codice di censura adottato dal 1922 al 1945 che proibiva l’apparizione nei film anche delle cosiddette “sex perversions”, quindi ogni tipo di rappresentazione al di fuori della “norma” cisgender ed eterosessuale. A tal proposito la studiosa cita The Maltese Falcon (1941), dove viene suggerito che il personaggio interpretato da Peter Lorre possieda una certa queerness data dai biglietti da visita profumati che porta con sé e per la sua natura delicata. In una scena del film il protagonista si dimostra diffidente nei confronti del personaggio di Lorre a causa di queste caratteristiche e il suo sospetto si rivela poi fondato quando questo gli punterà una pistola aggredendolo. Oltre alle implicazioni religiose e morali che poteva avere nell’America puritana degli anni ’40 la rappresentazione di un personaggio omosessuale, il film andava comunque ad acuire lo stereotipo della persona queer come inaffidabile e promiscua. Bays continua sostenendo che il cinema all’epoca contribuì comunque alla mancanza di protezione garantita alle persone queer che potevano essere emarginate e addirittura escluse da posizioni lavorative.
Con il passare degli anni è noto che molto cinema queer si sia prodotto nella sottocultura artistica cinematografica indipendente fino ad approdare a quello che negli anni Novanta prende il nome di New Queer Cinema: le soggettività LGBTQ+ si sono create, così come anche nella società, un proprio spazio ideale anche all’interno di un’arte così elitaria e così bianca, eterosessuale e cisgender, andando a costituire un vero e proprio sotto-cinema dall’influenza e dalla portata storica monumentale. Quello che vediamo qui è un tipo di cinema creato da persone queer e rivolto a spettatori queer, in grado di produrre discorsi interessanti su estetica, rappresentazione e diversità.
Quando si passa però al mainstream, al cinema commerciale ad alto budget con distribuzione capillare, la situazione cambia drasticamente. Se come abbiamo precedentemente accennato gli Oscar non premiano sempre la qualità, sono comunque un evento di importanza internazionale che porta grande visibilità al mondo del cinema, senza contare poi che i film vincitori diventano poi centro di discorsi teorici da ogni punto di vista.
Moonlight è stato il primo film LGBTQ+ a vincere il premio per Miglior Film agli Oscar 2017 dopo 88 anni di storia dell’evento: basato sul dramma teatrale del giovane commediografo Tarell Alvin McCraney, il film di Barry Jenkins è stato in grado di intersecare in maniera eccezionale i discorsi sulla race e sull’orientamento sessuale. Il caso del film di Jenkins è stato eccezionale: precedentemente, infatti, nonostante i film che contenessero tematiche o personaggi LGBTQ+ non fossero comunque pochi, tra i primi Alex Davidson nomina Rebecca, Laura, Midnight Cowboy e Rebel Without A Cause, non sono mai riusciti ad ottenere il premio. Andando avanti nella storia, infatti, con l’ascesa della queer theory degli anni ’80, la tematica LGBTQ+ è diventata poco a poco più inserita nei film prodotti e distribuiti dalle major.
Miriam Kent su Medium ricostruisce le tappe della diffusione di questi film, concentrandosi inizialmente sul premio per “Miglior film”.
Leggendo l’immagine emerge come su 18 film, 10 prevedono la morte del personaggio LGBTQ+ o sono comunque concentrati sulla rappresentazione del suo dolore. Si parla infatti di “trauma porn” soprattutto da parte di attivistɜ queer in particolare transgender, perché quasi sempre nel cinema mainstream quando vengono introdotti personaggi appartenenti alla comunità si vanno ad esplorare sempre le loro sofferenze: basti leggere i titoli dei film dell’immagine, American Beauty infatti figura un personaggio violento e omofobo che poi si scopre omosessuale, Brokeback Mountain è una storia d’amore omosessuale che finisce in tragedia, The Imitation Game è la biografia di Alan Turing, morto suicida. Anche quando passiamo ad altre categorie il discorso è lo stesso, nel 2000 Hilary Swank vince infatti l’Oscar come Miglior Attrice per l’interpretazione in Boys Don't Cry di Brandon Teena, ragazzo transgender ucciso tragicamente.
Quindi, c’è effettivamente un allargamento di storie queer nel cinema prodotto e distribuito dalle major, ma a quale prezzo? È questa la rappresentazione che vogliamo vedere? Sembra che l’Academy premi solo film che scatenino empatia attraverso la sofferenza, non permettendo ai personaggi LGBTQ+ di assumere ruoli diversi e sfaccettati e di non essere caratterizzati solo dalla propria sessualità o identità di genere, non passando quello che il GLAAD chiama “Vito Russo test”. Inoltre c’è da dire che nella maggior parte dei casi i registi e gli attori che interpretano personaggi queer sono cisgender ed eterosessuali, il che crea un problema anche dal punto di vista dell’accesso ai posti di lavoro, dove ancora faticano ad affermarsi i professionisti appartenenti alla comunità.
È indubbio che comunque si stiano effettuando dei passi in avanti, seppur minimi: l’edizione 2019 degli Oscar infatti è stata considerata la “più gay” di sempre, dove quasi ogni categoria includeva infatti un film LGBTQ+. La 91esima edizione vanta poi un primato, infatti La Favorita di Yorgos Lanthimos pareggiò con Cabaret (1972) come film queer ad ottenere il maggior numero di nominations, 10. Il film del regista greco ha acquisito grande importanza, anche perché l’Academy tende a favorire storie omosessuali maschili e sintomo di ciò è il grande ignorato del 2015, Carol, film di Todd Haynes acclamato dalla gran parte degli spettatori appartenenti alla comunità incentrato sulla storia d’amore saffica tra Carol (Cate Blanchett) e Therese (Rooney Mara). Una ricerca del 2017 di GLAAD, infatti, ha riportato che tra le grandi uscite delle major solo il 13% di 109 film aveva personaggi LGBTQ e di questi solo il 36% includeva lesbiche, il 14% bisessuali e lo 0% prevedeva contenuti trans-inclusive.
Il problema, dunque, esiste ed è supportato da dati statistici. Nel 2020 Ellie Lockhart, una studiosa di comunicazione e di scienze informatiche, ha condotto uno studio riguardante la rappresentazione esplicita LGBTQ+ all’interno dei film ad alto budget degli ultimi 10 anni utilizzando la piattaforma IMDB. I 5000 film inclusi nei dati d’analisi comprendevano titoli che avevano incassato al box office americano o che erano stati rilasciati dalle piattaforme streaming e che prevedessero personaggi principali che si identificassero nello spettro LGBTQ+ o che intrattenessero relazioni non eterosessuali. Dalla sua ricerca è emerso che solo il 2% dei film ad alto budget degli ultimi anni presenta queste caratteristiche il che risulta altamente problematico considerando che l’8% degli americani si identifica come queer e l’1% come trans.
Sebbene molte persone ritengano Netflix il regno del “politicamente corretto”, lamentando l’inserimento di personaggi appartenenti a minoranze in maniera “eccessiva” e “non pertinente”, la situazione in realtà è ben diversa. Nonostante il colosso californiano vanti un’incusività maggiore rispetto ad altre company sue simili, da un report rilasciato a febbraio 2021 che analizza i titoli Netflix negli anni 2018 e 2019, emerge che in realtà i passi da fare sono ancora molti. Infatti, solamente il 31.9% dei personaggi principali o secondari di film e serie tv Netflix provengono da gruppi etnici sottorappresentati e il numero scende al 16.9% per quanto riguarda la regia cinematografica e al 12.2% per gli showrunner delle serie tv.
La strada, quindi, è ancora lunga e non sembra essere percorribile in tempi brevi. GLAAD infatti ha lamentato la mancanza significativa di diversità nelle nomination degli Oscar di quest’anno, che figurano solamente i personaggi di Ma Rainey, interpretata da Viola Davis in Ma Rainey’s Black Bottom e di Billie Holiday, interpretata da Andra Day in The United States vs. Billie Holiday, due donne bisessuali afroamericane. Altre nomination sono a Lena Waithe, nominata per il doppiaggio di un personaggio queer in Onward, film animato disney e a Travon Free, scrittore bisessuale per il cortrometraggio Two Distant Stranger.
Ciò che ancora manca sui grandi schermi è la rappresentazione inclusiva e intersezionale: se possiamo gioire flebilmente per le candidature a Chloé Zao ed Emerald Fennell, le quali potrebbero passare alla storia come seconde donne a vincere il premio per miglior regia, non possiamo di certo smettere di interrogarci sul futuro del mondo dell’audiovisivo e continuare a lottare per portare inclusività e diversità anche nel nostro consumo individuale di film e serie tv.
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