Che cosa si intende per tropo narrativo?
Per tropo si intende una figura retorica, un termine con cui indicare un concetto più vasto che il pubblico riconosce e comprende immediatamente.
Che cos’è dunque il tropo “Bury your gays?”
È la tendenza dei prodotti d’intrattenimento di uccidere i personaggi LGBTQ+.
Nel corso degli anni abbiamo visto personaggi LGBTQ+ ritratti come criminali (Buffalo Bill de Il Silenzio Degli Innocenti), cattivi ultra sessualizzati (Jennifer’s Body) o anime torturate (Patrick in Noi Siamo Infinito), ma c’è soprattutto un filo comune a tutte le loro storie: la sofferenza.
Dove nasce questo tropo e perché?
Nasce sotto forma di scappatoia per raccontare storie queer negli anni in cui l’essere “non etero” era di gran lunga più contrastato di adesso.
Negli anni ’30 Hollywood adotta il Codice Hays, un insieme di norme che regola cosa può essere rappresentato al cinema e cosa invece è caldamente sconsigliato o proibito.
Il comportamento criminale non doveva essere descritto come attraente, né tantomeno doveva essere esaltato o glorificato. Si parla quindi, ad esempio, di uso di droghe, ma anche di tendenze omosessuali.
Divennero quindi numerosi i film dal sotto testo omoerotico, che però avevano tutti la stessa conclusione: la punizione del cattivo, ovvero del personaggio queer.
Hitchcock ci regala due esempi eclatanti di questa narrazione, Rebecca - La prima moglie (1940) e Nodo alla gola (1948).
Così si finiva per appellarsi alla comunità LGBTQ+ e per non pestare i piedi a nessuno i personaggi queer venivano giustiziati e l’ordine tornava a regnare.
L’implicito collegamento tra la criminalità, la cattiveria e l’essere queer sarebbe però continuato molto tempo dopo l’abbandono del codice Hays nel 1968.
Perché? Forse a causa di quanto formativi siano stati quegli anni per il cinema e la televisione. Molti degli stereotipi e strutture narrative tuttora utilizzate derivano proprio da quel periodo. Con il passare del tempo l’essere umano si è sicuramente aperto maggiormente, ma anche se ci siamo allontanati da alcuni degli stereotipi limitanti, la scena della pop culture continua a essere particolarmente ostica per la comunità LGBTQ+, che li sottopone a storie di omofobia, abusi, fino ad arrivare alla morte. A dirla tutta, anche quando i personaggi non sono sottoposti a violenza o morte, a molti di loro non è comunque permesso di essere felici.
La domanda sorge forse spontanea. Perché si continua ad insistere nel rendere infelici i personaggi queer? È ora che si arrivi ad una narrazione che non comprenda necessariamente la sofferenza.
All’interno di questo tropo, ci sono diverse varianti che abbracciano maggiormente la comunità, andiamo a vederne qualcuna.
Queer = Criminale Deviato
In molti film dei primi decenni del cinema, come già accennato prima, la rappresentazione di personaggi non etero andava quasi sempre strettamente a braccetto con la criminalità, la violenza e la deviazione.
Scendendo maggiormente negli stereotipi, gli uomini queer venivano spesso descritti come predatori, cedevoli agli atti di violenza, che anche in casi insospettabili era ritenuta “sessuale”.
Le tendenze omicide delle donne queer coincidevano invece con l'iper sessualità e l’ossessione.
Quando venivano inevitabilmente uccisi, la loro morte veniva presentata come una forma di giustizia, lasciando il pubblico sollevato non tanto perché “l’assassino era stato preso”, ma anche perché tutto era tornato sulla retta via e le devianze erano state “corrette”.
Queer = Martiri
Quando non sono raffigurati come personaggi cattivi e bizzarri, per non dire peggio, sono spesso raffigurati come martiri, le cui vite finiscono naturalmente in tragedia.
Con la diffusione dell'epidemia di AIDS negli anni '80, è inutile dire che la gran parte delle storie che venivano raccontate girassero attorno a questo argomento. In Philadelphia (1993) Tom Hanks interpreta un avvocato che perde il suo lavoro a causa dell'AIDS. Il suo personaggio è essenzialmente ridotto alla malattia. Il film infatti non si concentra troppo su di lui in quanto essere umano vivo e impegnato nel suo lavoro, quanto come un qualcosa di morente a causa della sua condizione sia di malato fisico che “mentale”.
Nel film del 1961, The Children’s Hour, basato su una piéce teatrale di Lillian Hellman le due donne protagoniste, interpretate da Audrey Hepburn e Shirley MacLaine perdono il lavoro a seguito di uno scandalo inventato che le vede in una relazione amorosa. Nel film una di loro muore dopo aver realizzato i suoi veri sentimenti.
Queste storie non solo normalizzano e “indorano la pillola” del suicidio per le persone queer, ma rischiano anche di influenzare negativamente il potenziale pubblico queer.
Questo per dire che nonostante problemi di questo genere siano vicini alla comunità e raccontino alcune delle loro vicende, storie come queste descrivono anche l’essere queer come un qualcosa di pericoloso e mortale, sia esso per mano di una malattia o per mano di loro stessi dopo essere stati torturati per la loro omosessualità.
Inutile dire che la rappresentazione influisce molto sul pubblico, in particolare quello più giovane. Infatti finché gli adolescenti della comunità LGBTQ+ vedranno personaggi che gli somigliano, parlano e pensano come loro che finiscono per uccidersi, il suicidio continuerà ad essere una possibile opzione per mettere fine alla loro sofferenza.
Queer = Una vita di stenti.
Le persone LGBTQ+ sono soggette a discriminazione, rifiuto, derisione e violenza. Questo nella vita tanto quanto nella finzione.
Le loro storie spesso ruotano intorno alla necessità disperata di essere accettati, dalle loro famiglie, dai loro amici, dalle loro comunità, e soprattutto da loro stessi. Anche se alcune di queste storie finiscono con il personaggio che si accetta e riesce a trovare la pace (e se è particolarmente fortunat* anche l'amore), si perpetra lo stereotipo che essere queer significhi automaticamente non essere accettati da ciò che ci sta intorno.
Tutto questo, anche se in alcuni casi è vero, non fa che rafforzare l'idea che essere queer vuol dire non poter avere una vita felice, ma solo una piena di violenza e odio che finirà con una tragica morte. La loro felicità e gioia sono sempre minacciate. I personaggi eterosessuali non vengono mai uccisi perché sono eterosessuali.
Le serie televisive si sono dimostrate particolarmente letali per i personaggi femminili. Secondo uno studio condotto da LGBT Fans Deserve Better sul palinsesto statunitense, infatti, tra il 2015 e il 2016 ben 42 personaggi lesbici e bisessuali sono stati uccisi.
Nel 2016 si è arrivati ad un picco di 4 in un solo mese.
Una delle morti che ha fatto più clamore è stata sicuramente quella di Lexa (interpretata da Alicia Debnam Carter), in The 100, uccisa dopo aver consumato il suo amore con la protagonista, Clarke (Eliza Taylor).
Per molte persone uno degli aspetti più irritanti di questo tropo è il modo in cui spesso tratta le persone LGBTQ+ come sacrificabili, usando la loro morte solo come un punto di svolta nella trama di altri. Le sofferenze di questi personaggi servirebbero dunque solamente a promuovere l'arco narrativo di un personaggio non LGBTQ+ o a fornire un momento di shock.
Queer = Visti con gli occhi degli altri.
Molto spesso lo stereotipo del martire si lega ad un preciso tipo di storia, ovvero quella in cui non è il personaggio queer ad essere davvero al centro della narrazione, quanto chi l* racconta.
Un esempio è The Danish Girl, storia di Lili Elbe (interpretata da Eddie Redmayne), pittrice transgender e della sua compagna Gerda (Alicia Vikander), che inizialmente lotta per capire e accettare Lili finendo poi per diventare un’alleata. Questo fa sì che sia Gerda a prendersi “gli applausi” del pubblico. Sia a lei che il pubblico dice “brava, sono con te”, mentre invece Lili passa in secondo piano.
La stessa cosa avviene nel film 3 Generations - Una famiglia quasi perfetta, dove si racconta la storia di un ragazzo trans, interpretato da Elle Fanning, vista attraverso gli occhi e i sentimenti della famiglia.
L’accettazione delle persone queer da parte degli eterosessuali viene spesso visto come un momento per lodare questi ultimi, invece di lodare i primi per il loro percorso. Questi personaggi sono raramente il vero centro della propria narrazione.
È solo di recente che abbiamo iniziato a vedere i personaggi LGBTQ+ come qualcosa di più del loro orientamento sessuale. Li vediamo anche vivere e prosperare invece di soffrire e morire. Alcuni esempi sono il film di Olivia Wilde, Booksmart, oppure Love, Simon, adattamento del romanzo di Becky Albertalli.
A seguito della sopracitata morte del personaggio di Lexa molti fan si sono ribellati e hanno iniziato a farsi sentire sui social, portando a galla numerosi altri esempi di “bury your gays” (che qui non cito per evitare spoiler) pretendendo l’estinzione di questo tropo e delle sue dolorose ramificazioni.
L’obiettivo non è però quello di rendere i personaggi LGBTQ+ immortali e sempre felici, cosa che sarebbe altrettanto dannosa e inverosimile, ma di assicurarsi che le loro storie non siano fatte solo di sofferenza, che loro stessi siano più delle loro lotte e dei loro orientamenti sessuali, che non siano lì per servire i personaggi etero e dare loro qualcosa da imparare. Se soffrono non è (solo) perché sono queer, ma perché sono umani e provano emozioni.
Per i geek delle statistiche:
Dal 1993 al 2013 ci sono state 257 nomination agli Oscar di personaggi eterosessuali. Sempre nello stesso arco di tempo, ci sono state 23 nomination per personaggi gay, bisessuali o transgender. La percentuale di mortalità tra i personaggi etero è del 16%, quella tra i personaggi queer è del 56% e di quelli rimasti in vita, solamente 4 ottengono un happy ending. In 20 anni di storia!!
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