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L’amica geniale: la maternità come una gabbia

La messa in onda della terza stagione de l’Amica geniale, riadattamento televisivo della serie di omonimi romanzi scritti da Elena Ferrante, ha portato sul piccolo schermo le proteste degli anni ’70. Nello specifico, le proteste femministe di quegli anni riguardo i diritti riproduttivi.

Anche se le due protagoniste Elena e Lila non sono mai al centro di questi eventi, possiamo però vederne le conseguenze sulle loro vite.

Sicuramente Elena, che in questa stagione vive a Firenze, è più partecipe della vita politica di quegli anni grazie al suo lavoro di scrittrice e intellettuale. Oltretutto sposa Pietro Airota, figlio di una facoltosa famiglia di studiosi e fratello di Mariarosa, attivista femminista in prima linea.


Il riflesso della lotta femminista nella vita quotidiana

Insomma, se Elena ha sicuramente più contezza di ciò che sta accadendo nel mondo, Lila, che è rimasta a Napoli nel rione in cui sono nate, è molto meno informata.

Le conseguenze delle battaglie femministe però arrivano fino al rione, tanto che Lila in una puntata ci sorprende chiedendo ad uno psichiatra se può prescriverle la pillola anticoncezionale.

Le due amiche quindi si recano da una dottoressa che spiega loro come la pillola venga prescritta ufficialmente solo alle donne sposate, e solo per regolarizzare il ciclo: ma il suo effetto non è solo questo, è anche quello di evitare le gravidanze.

Alla fine le due ragazze decidono di prenderla, per motivi molto diversi però: Lila per evitare un’altra gravidanza dopo quanto ha sofferto durante la prima ad appena 18 anni, ed Elena (che sappiamo avere un forte desiderio materno) per poter scrivere almeno un altro libro prima di mettere su famiglia. Sta infatti per sposare il suo fidanzato, Pietro Airota, che pur essendo ufficialmente un intellettuale di sinistra rifiuta la volontà della futura sposa di assumere l’anticoncezionale.


La tua schiava devo essere io?

Credo che gli uomini della serie che faccia più male vedere sullo schermo non siano i violenti del rione napoletano, che hanno assimilato la violenza come intrinseca alle relazioni uomo-donna, ma la violenza subdola degli uomini colti nei confronti delle loro mogli e compagne. Pietro, che dovrebbe essere progressista, si oppone alla moglie e il risultato è un’immediata gravidanza, seguita pochi anni dopo da una seconda. Il risultato è che Elena non scrive più, non fa a Firenze la vita culturale e mondana che avrebbe immaginato. è prigioniera in casa sua, ostaggio delle due bambine: a cosa sono serviti ghiaini di sacrificio sui libri, se comunque si è ritrovata a fare la stessa vita di sua madre?

E poi, le due figlie. Come profetizzato da Lila, benché la situazione sociale di Elena si molto più agiata -non dimentichiamo mai la questione di classe che permea L’Amica Geniale-, la giovane scrittrice interrompe la sua carriera per dedicarsi alle bambine. Ovviamente non riceve aiuto da parte del marito, che anzi arriva ad opporsi persino all’assunzione di una tata per aiutare la moglie.

La discussione riguardo l’assunzione della tata è forse la scena più esemplificativa dell’intera questione. Elena, stremata dalla cura di casa e figlie, chiede a Pietro per l’ennesima volta di assumere una ragazza che la aiuti. Alla richiesta il marito le risponde perentorio che non vuole schiave dentro casa sua. Allora Elena, tornando al napoletano, la sua lingua dell’emotività, ribatte serissima: e allora la tua schiava devo essere io?

Credo che questo riassuma perfettamente la visione dell’intellettuale di sinistra di quegli anni (ma anche di questi anni): la totale negazione della schiavitù domestica della donna, peraltro trattata fin da Engels ne “L’origine della famiglia”.



Lavoro domestico e maternità

Il tema del lavoro domestico nasce proprio negli anni ’70. Chiamato anche lavoro non retribuito o riproduttivo, include tutti quei compiti, svolti prevalentemente dalle donne, che permettono alla società di progredire, senza però che vengano retribuiti. Ci si riferisce alla cura della casa, ma anche e sopratutto alla crescita, l’educazione e l’accudimento dei bambini. Nel libro “Genere e capitale” la studiosa, filosofa e attivista Silvia Federici spiega che il ruolo delle donne nella società odierna e passata è subordinato all’uomo perché il lavoro che svolgono non è riconosciuto in quanto non salariato. Se solo il pagamento in cambio di una prestazione sancisce cosa è lavoro e cosa no, ne consegue che i compiti di cura svolti dalle donne non saranno mai riconosciuti come tale. Per secoli la società ha provato a far passare l’accudimento di casa e figli come ruolo naturale delle donne, e quindi tale immodificabile ed eseguito con facilità, se non addirittura con gioia.

Al contrario, quello che vediamo ne L’Amica geniale è una maternità coatta, fatta di donne che amano i loro figli ma sono anche costrette a rinunciare a tutto per loro. Donne rinchiuse in casa nonostante le loro capacità, subordinate a uomini violenti: prima tra tutte Gigliola, moglie di Michele Solara.

Le scene della serie che trattano il rapporto delle protagoniste con i loro figli sono spesso permeate di tenerezza, ma è palpabile anche un senso di disagio dato dalle aspettative che sentono su di loro in quanto madri e il conseguente contrasto con le rivoluzioni sociali che stanno avvenendo e che, come abbiamo già visto, le toccano da vicino. Il ritratto della maternità fatto dall’adattamento televisivo de L’amica geniale non è edulcorato e idilliaco come spesso accade in televisione, ma rappresenta la realtà di due donne che hanno avuto figli per costrizione sociale e che ora sono costrette ad assumersi la responsabilità di crescerli ed educarli al meglio, privandosi della loro vita e senza tuttavia vedere mai il loro lavoro riconosciuto.



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