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Il trucco mi rende una cattiva femminista?


Truccarmi fa di me una cattiva femminista?


La prima volta che me lo sono chiesta ho immediatamente rigettato l’ipotesi: è uno strumento di espressione personale. Passare mezz’ora allo specchio ad ascoltare musica e sovrapporre ombretti, per me, non è solo il preambolo di una serata in discoteca, ma ne è parte integrante: è un modo di calare nel personaggio, dire: stasera questa sono io. Una pratica teatrale ed esplorazione psicologica allo stesso tempo. Mi diverte, e se mi fa stare bene, farlo non può essere sbagliato. Sono una donna che sta giocando col suo corpo: non può non essere femminista.




Col tempo, però, ho cominciato a chiedermi perché certe identità che il trucco (quello con finalità estetica e non puramente artistica) mi conferiva mi piacessero più di quella rappresentata dalla me struccata. Da cosa derivava quel piacere, quell’empowerment che non ha corrispettivo in italiano? Cos’era, a farmi sentire in controllo, se non che il mio aspetto potesse esercitare un ascendente su chi mi circondava, avvicinandosi ad un ideale estetico, conformandovisi?


Questa critica si avvicina al pensiero del femminismo di seconda ondata, quello degli anni ’60-’70, secondo il quale il make-up contribuisce all’oggettivazione del corpo femminile e all’idea che quest’ultimo vada corretto nel nome di una perfezione i cui connotati mutano costantemente: come scrive Naomi Wolf in “The Beauty Myth”, uno dei testi fondamentali della letteratura femminista, un’immagine “non frutto di autentici bisogni e inclinazioni umane, ma di un piano architettato appositamente per offrirci una carota che non potremo mai raggiungere”.


Il femminismo della terza ondata, invece, quello odierno, tende a considerare la riappropriazione di caratteristiche stereotipicamente femminili, tra cui il trucco modernamente inteso, come un modo di rivendicare la propria identità, liberandola da accezioni negative: essere donna, e i gusti e le abitudini che a tale identità la società associa, non sono motivo di vergogna. L’obbiettivo è essere considerate degne di rispetto in quanto donne, senza essere costrette ad “assomigliare agli uomini” per essere prese sul serio.


La cosa può però diventare una sorta di circolo vizioso nel momento in cui ci si chiede chi e quando abbia deciso che tacchi e rossetti siano roba da donne. E soprattutto, che questi siano uno strumento di liberazione. E non liberazione in assoluto: liberazione personale.


Questa è forse la vera critica contro il così detto lipstick feminism: il suo rapporto con capitalismo e neoliberismo.


L’idea di potersi autodeterminare grazie all’acquisto di beni di consumo è evidentemente una logica al servizio del sistema capitalistico. Il suggerimento è che con le capacità e il carattere adatti sia possibile arrivare ovunque nella vita, in barba al patriarcato. E guarda caso, ci sono sempre prodotti che ti possono aiutare nell’impresa di diventare la versione migliore di te stess*.


Questo fenomeno ha in realtà un nome specifico, il brand feminism, che non ha niente a che fare col femminismo, ma solo con lo sfruttamento della sua retorica come strategia di marketing.


Brand feminism e lipstick feminism non sono la stessa cosa, perché il secondo non è finalizzato al consumo, anche se lo contempla; ma questo svuotamento del femminismo, da pratica politica, filosofica e collettiva a semplice empowerment personale pone la questione se quello neoliberale sia femminismo affatto. È davvero impossibile conciliare il make-up con una visione collettiva?


Chiedersi se esista la libera scelta nel patriarcato è legittimo, ma è anche praticamente impossibile rispondersi. Il punto non è tanto chiarire una volta per tutte se mi trucchi, vesti, e in generale presenti nel modo in cui lo faccio perché è un mio desiderio innato o perché indotta a crederlo, ma chiedermelo in assoluto, considerendo il ragionamento stesso come pratica di consapevolezza.


Non è il fondotinta a rendermi antifemminista, così come le gambe pelose non mi rendono femminista. Mi rende tale cercare di capire cosa ci sia dietro le mie scelte, vere e percepite. E adoperarmi perché non sia più il patriarcato.

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