Henriette Sabroe Ebbesen è una fotografa danese. Classe 1994, questa giovane artista ha già alle spalle numerose campagne e pubblicazioni importanti, con titoli del calibro di Vogue, Dolce & Gabbana, e Vanity Fair.
Le sue fotografie si inseriscono sulla scia del surrealismo, ma con dei codici visivi totalmente moderni, colori brillanti e nitidezza assoluta. Giocando sul filo tra l'introspezione e il subconscio più remoto, tra la chiarezza e la confusione, le sue immagini distorte ci proiettano in un altrove familiare, mantenendoci sempre in contatto con il nostro mondo.
Gentile e con i piedi per terra, abbiamo parlato in una sera di questa quarantena primaverile, dove mi ha raccontato del suo percorso, del suo lavoro, e della sua singolare visione artistica.
Ciao Henriette! Prima di tutto volevo chiederti: cosa ti ha portata alla fotografia? Hai sempre avuto questa passione o ci sei arrivata a seguito di un percorso artistico?
In realtà è stato un po' casuale. Mi sono sempre interessata all'arte, ma non ho mai pensato alla fotografia come un medium che avrei potuto usare, perché in Danimarca la fotografia è vista più da un punto di tipo documentaristico, che non mi interessava molto. La mia visione è molto più simile a una fantasia, quindi non ho mai pensato che la fotografia potrebbe essere un'opzione per me. Facevo soprattutto dipinti e disegni, ma non ero troppo seria a riguardo. Poi nel 2015, ho fatto un anno di scambio in Georgia (U.S.A.) e ho studiato arte per un anno seguendo alcuni corsi a caso, tra cui un corso di fotografia. La cosa divertente è che non volevo davvero conoscerla, ma avevo una macchina fotografica e del tempo libero nel mio programma. L'insegnante che abbiamo avuto era davvero brava, ci ha insegnato a capire i parametri ed a usare photoshop, ma il corso era più incentrato sull'usare la fotografia per esprimere sé stessi. Ho sempre fatto fatica nei miei dipinti perché non riuscivo a trovare uno stile, ma quando ho provato seriamente la fotografia è stato come istantaneo. Naturalmente ho provato anche altre tecniche, ma poi quando sono tornata in Danimarca ho capito che avevo trovato qualcosa, che era lì e che potevo lavorarci. Anche perché rispetto al disegno si può sperimentare molto di più. La pittura è un mezzo molto meno immediato e non ci si può veramente buttare di getto, perché ci vuole molto tempo. Anche per questo penso che la fotografia sia più divertente, ci puoi giocare, perché quando hai un'idea la si può provare a realizzare subito.
Assolutamente, il vantaggio del digitale è senza dubbio l'immediatezza che porta al progetto.
Esatto. Inoltre, cercavo anche una connessione con la realtà. Sono sempre stata affascinata da Escher, dalla sua visione così fisica e complessa, e penso che, essendo la fotografia così strettamente connessa al reale, ci si possa permettere di giocare più di quanto si possa fare in un quadro.
Dopo il tuo ritorno dalla Georgia, ti sei iscritta in una scuola d'arte?
No, in realtà ho studiato medicina e sono ancora all'università. Metà del mio tempo sono una fotografa e l'altra metà sono uno studentessa! Questo è anche il motivo per cui è così importante per me il fatto che è molto più rapido lavorare con la fotografia. Anche se ho usato molto Photo Vogue e in un certo senso è diventato la mia scuola, perché quando carichi le foto queste vengono valutate: così ho capito quale foto era migliore, in quale direzione andare, e ho trovato un modo per migliorare. Penso di averlo scoperto nel 2016 o forse nel 2017, quindi sì, non direi di essere autodidatta in quanto ho comunque fatto quel corso in Georgia, ma no, non ho seguito una scuola d'arte.
Nelle tue opere usi molte distorsioni e manipolazioni della prospettiva delle forme e dei corpi. Pensa che lo studio della medicina, in particolare dell'anatomia, influenzi la tua visione artistica?
Beh, sì e no. Tutte le immagini arrivano dal subconscio, raramente penso in maniera consapevole a ciò che voglio far uscire. Ma credo che naturalmente la mia visione sia influenzata da ciò che ho studiato e che vedo. Penso che tutti noi siamo influenzati da ciò che vediamo, ma è solo meno ovvio. Non pianifico esattamente cosa fare, è più un "sarebbe bello fare qualcosa con questo materiale" di solito.
Nelle tue fotografie utilizzi spesso specchi e schermi, le immagini a volte sembrano quasi un fluido, una cromatura. Come ci sei arrivata? Come ti sei approcciata a questa visione nel tuo lavoro?
Credo che derivi dal mio modo di sperimentare. All'inizio è stato un caso: dovevamo fare un autoritratto per il corso e ho trovato degli specchi e provando ad integrarli nelle mie foto mi è piaciuto il risultato. E poi, per il corso di pittura, abbiamo avuto a che fare con la storia de "la Regina delle nevi" di Hans Christian Andersen: all'inizio la storia parla di alcuni troll che hanno uno specchio dove si vedono solo cose brutte. Quando questo viene rotto, un piccolo frammento dello specchio va a finire negli occhi delle persone, e tutti iniziano a vedere solo cose negative. Ispirandomi a questo, ho iniziato a cercare materiali riflettenti. Vado spesso nei mercatini delle pulci e compro oggetti che mi attirano. In più, sicuramente il fatto di avere studiato molto le scienze, mi rende molto interessata e curiosa nell'aspetto più "scientifico" del lavoro, ad esempio "chissà come rifletterà, come si distorcerà, come lo distorcerà"... questo è senza dubbio qualcosa che influisce sul modo in cui mi approccio alle foto. Per questo preferisco fare tutto quello che posso quando scatto. Non uso photoshop per distorcere le mie immagini, tutto viene fatto con gli obiettivi e gli oggetti. Poi in caso, sistemo qualche imperfezione e colore, ma questo è tutto.
Sul tuo sito web parli del fatto che la questione dell'identità è un grande punto di ricerca nel tuo lavoro.
Si, penso che abbia a che fare soprattutto con il crescere, diventare adulti e dover scegliere il proprio percorso di vita. Per molti versi mi sento come se mi trovassi sempre in bilico tra due mondi. Non appartengo totalmente al mondo scientifico e allo stesso tempo non appartengo al mondo dell'arte, dato che non sono mai stata in una vera e propria accademia. Molte volte mi sono sentita come se fossi una persona diversa in situazioni diverse, e penso che sia lo stesso per tutti. Credo che ci si comporti in modo diverso in base a dove si è, con chi si è, se si è con la propria famiglia o con amici diversi. La nostra personalità è più complessa della nostra facciata. È una cosa su cui ho riflettuto a lungo, il voler sapere a quale fosse il mio posto. Ma credo che oramai ho accettato che possono esistere sfaccettature diverse in ognuno di noi, non si devere essere una cosa solo per sentirti completo.
Poi ho fatto anche una serie sulla mia infanzia. Mi stavo interessando al collage e sai, non sono nemmeno sicura del perché mi interessasse tanto. Forse perché mi sento come se stessi giocando quando faccio arte, come un bambino, anche perché i miei modelli spesso sono miei amici di sempre, quindi in questo senso ho portato la mia infanzia nelle opere. Ma è anche bello vedere chi ero da bambina e chi sono ora, il rapporto tra queste due parti di me.
Come sono state le sue esperienze con i diversi marchi con cui ha lavorato? È stato difficile far rispettare la tua identità artistica?
Innanzitutto, mi sono sentita molto onorata del fatto che volessero lavorare con me perché sentivo che il mio lavoro era apprezzato. Ed è così bello quando ti vengono in mente idee un po' folli e vieni presa sul serio. A volte quando parlo dei miei progetti con i miei amici e spiego loro di cosa si tratta sono un po' scioccati, è sempre un po' imbarazzante, della serie "sì, sto facendo un collage e c'è un pesce e l'ho messo lì tagliato in questo modo" e loro dicono solo "ok, sembra... cool" (ride.). È stato davvero meraviglioso lavorare con un team di professionisti aperti ad ascoltare la tua visione. In più, tutte quelle persone avevano un grandissimo talento e sapevano pensare in modo creativo. Ad esempio, quando ho lavorato con Vanity Fair stavo riflettendo ad alta voce: "Forse la modella dovrebbe avere dei fiori nei capelli" e il parrucchiare è stato subito pronto e reattivo ad aiutarmi a capire quale sarebbe stata l'opzione migliore: quale colore, quale fiore, eccetera. Un modo di pensare sinergico, mi è piaciuta molto quell'esperienza. Allo stesso tempo è molto impegnativo, perché sai di voler fare un ottimo lavoro e tutti si aspettano che tu sia professionale e che tu faccia del tuo meglio... ma è stato davvero divertente! La prima volta, con Vogue, è stata un po' una sfida. Io sono sempre molto selettiva sul tipo di lavoro che voglio fare: non ho molto tempo a disposizione con i miei studi e non faccio molti lavori commerciali, e all'inizio il team voleva un intero reportage della Notte delle luci in Puglia! Mi sono detta: "Ma come posso riuscire a fare questo progetto in un modo fresco e interessante?" Alla fine è andato tutto bene! Ci vuole un po' ad entrare in questo mindset, capire come selezionare le opportunità che ti vengono incontro, e soprattutto come portare la propria visione in esse. Ma è così che si migliora e si va avanti.
Quali consigli daresti alle persone che si avvicinano all'arte e stanno ancora cercando di trovare il loro modo di esprimersi?
Alcuni anni fa, prima di andare in Georgia, mi interessava l'arte, ma non avrei mai pensato a me stessa come ad un'artista. Poi ho avuto l'opportunità di concentrarmi solo sul fare arte, il che mi ha fatto capire che se vuoi fare qualcosa con la tua creatività devi prenderla sul serio. Deve essere una priorità, lavorarci ogni giorno, qualsiasi tipo di arte si voglia fare. Ho anche capito che nulla ti trattiene veramente. Se vuoi fare arte - fai arte! Non hai bisogno di nessuno che ti dica che puoi farlo. All'inizio anch'io mi trovavo a dire"com'è possibile", ma una volta che iniziato ad impegnarti regolarmente, sviluppando un sacco di lavori, ti rendi conto di quanto sei arrivato lontano e sei migliorato. Sii persistente, questo sarebbe il mio consiglio.
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