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Come sono tornata adolescente a vent'anni


Photo by Siân Davey, Martha’s Reflection


Succede che diciassette giorni fa, esentata da qualsiasi impegno reale o astratto tranne quello di pagare l’affitto, torno a casa di mia madre per un periodo di tempo improbabile da definire, essendo il mondo sotto sopra.


L’immediata conseguenza è che cucino molto meno, bevo solo la domenica, risparmio sui soldi e piango di più. Non esco neanche più per fare la spesa e viene da sé che la mia vita vera si metta in pausa, confluendo in un limbo deserto sprovvisto di vecchio con barba a portarmi all’altra sponda.

È un po’ come con il pacchetto di wishing dust che Jenna in 13 Going on 30 si versa in testa, desiderando fortissimo di saltare ogni convenevole e andare dritta ai trent’anni e trovandosi, la mattina seguente, in un corpo adulto che non riconosce. Mi sento così, ma al contrario e senza aver chiesto niente a nessuno. Niente desideri espressi sotto una pioggia di glitter scadenti né tette che i vestiti li riempiono davvero: sono solo salita su un treno diretto in provincia e quando sono scesa ero tornata al liceo.


Photo by Siân Davey, After the Swim (iv)

Oggi sembra che mi abbiano presa a calci. Mi fa male ovunque e non ho nessun motivo valido a cui appellarmi per giustificare questa cosa, dato che non ho fatto niente a parte vegetare. Da quando sono tornata a casa di mia madre mi sento scarica. Mi pare che le mie energie siano di giorno in giorno minori e che non esistano carica batterie nei dintorni.

Dopo cinque anni fuori casa, la sensazione è quella di essere presa a schiaffi da una vita che sa di vecchio. Quella da cui si è sognato di scappare così a lungo che, non appena se ne è presentata l’occasione, si è iniziato a correre senza mai più voltarsi indietro e adesso manco la si riesce più a mettere a fuoco. Ma a rinfrescarne la memoria con una coltellata al fianco ci pensa il rigurgito dello stato d’animo adolescenziale per antonomasia: il sentirsi – e probabilmente l’essere – incompresi da chiunque nel mondo, che in questi giorni risale tipo il vino dopo la vodka.


C’è un momento a caso – potrò aver avuto sui quattordici anni – in cui decido di tingermi i capelli di arancione da base praticamente nera. È da lì in poi che la mia tinta dei capelli smette di essere un riferimento per tutte le volte in cui tento di collocare temporalmente un evento passato di cui ricordo poco (la cambio troppo spesso e quasi mai in corrispondenza di significative svolte), perciò sarebbe poco attendibile cercare le differenze tra oggi e dieci anni fa pensando al fatto che ora i miei capelli siano rosa con cinque centimetri di ricrescita e che allora mi arrivassero al culo e fossero del colore della paglia che brucia. Forse è più in generale poco sensato fare fede ai mutamenti estetici (troppi e non sempre degni di nota) per capire come si trasformano le cose e le persone, come ci trasformiamo noi in dieci anni quando l’arco di tempo considerato coinvolge il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

Ci penso tutti i giorni da diciassette giorni e ho capito che nel mio caso il metro di misura più adatto è la voglia di evadere, sempre presente ma stravoltasi in modo radicale.

Dieci anni fa quello che volevo era alzare un muro invalicabile tra me e tutto quello che abitava la mia quotidianità, scappando il più lontano possibile (drama queen!), quello che bramo oggi è che sia quello da cui scappavo a lasciarmi andare e a concedermi un addio.


Photo by Siân Davey, Torquay 5am


In camera ci vado solo per andare a letto la sera, mai durante il giorno, perché ho il terrore di vedere il tempo riavvolgere il nastro mentre salgo le scale e riportarmi a quando avevo sedici anni.

So che se mia madre leggesse quello che ho scritto fino a qui penserebbe di non essere stata una buona genitrice nel senso più primordiale del termine e quasi sicuramente si chiederebbe cos’abbia fatto di tanto grave per rendermi la vita così odiabile o perlomeno per non essere riuscita ad arginare la cosa. Ma a quattordici anni le alternative sono giusto un paio: o sei tormentata o sei morta (testimonianze di quattordicenni contemporaneamente vive e serene sono in ogni caso più che benvenute).

Lungi da me il voler generalizzare, sminuendo o declassando qualsiasi sofferenza e conseguente rancore più o meno profondo, ma è possibile che mia madre, che prima di essere tale è una donna e quindi una persona, non abbia fatto niente di grave, o almeno non più di altri. E se fa parte di quelle madri che invece qualche cosa che mina il precario equilibrio dei figli hanno fatto, probabilmente in quel momento non aveva niente di meglio a cui aspirare, perché nessuno vuole davvero fare schifo ed essere la peggiore versione di sé. Non necessariamente come madre o padre, ma certamente come essere umano.


C’è però un modo favoloso e rivoluzionario di fare schifo di cui il melodramma e la fragilità tipici di quando si è adolescenti ci fanno prima vergognare e poi pentire.

Non passa un giorno in cui io non mi metta in dubbio per qualcosa che ho fatto o detto, quasi sempre senza rendermi conto delle conseguenze deleterie che l’attitudine austera e autogiudicante con cui lo faccio è in grado di scatenare. Rivolgendo al passato la consuetudine dell’autofustigazione di cui sopra, il rischio ancora peggiore è però quello di vergognarsi della ragazzina che si è stata e di continuare a punirla per tutto quello che avrebbe potuto fare diversamente, quando invece le si dovrebbe solo dire che non c’è niente che non vada in lei, eventualmente perdonarla per quello che non si è permessa di essere e chiederle scusa per averle fatto carico di giudizi e moralismi che non dovrebbero appartenere a nessuno, mai. La verità è che anche lei, come chiunque altro, è stata il meglio che le fosse possibile essere e se oggi non avresti la stessa audacia con cui si è chiusa nel bagno di una discoteca con più alcool in corpo che sangue e un tipo che nonostante quest’ultimo punto considerava discutibile, va benissimo così. Ma sii fiera di lei per aver fatto così schifo da avvicinarsi più che mai alla versione più bella perché vera di se stessa.


Photo by Siân Davey, Girls swimming at dusk


Diciassettesimo giorno in cui vegeto, ma almeno oggi ho capito che sarò sempre diversa da quella che ero e con un po’ di fortuna sempre più soddisfatta del presente che del passato, ma costantemente tesa a destrutturare per ricostruire e mai disposta a smettere di fare schifo.

Per accompagnare, I heard the jukebox playing:

  • Personality Crisis, dalla deluxe edition di Dirty (1992), Sonic Youth. No description needed.

  • Please, Please, Please, Let Me Get What I Want, The Smiths. Per quando tutto sembra andar male ma poi alla fine non è vero che va così male.

  • IL SCHIFO, sesta puntata del podcast di Tea Hacic (TROIE RADICALI), l'unica voce che vorrete sentire da oggi in avanti.

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