Documentarista e studiosa di sociologia trapiantata a Parigi ma con Napoli nel cuore, Sabrina Onana è una tra le personalità afroitaliane più influenti del panorama nostrano. Sabrina, con il suo Crossing the color line ha raccolto le voci di tanti giovani italiani afrodiscendenti che hanno potuto raccontarsi di fronte alla telecamera, narrando storie di vita quotidiana, sogni e obiettivi. Qualche settimana fa ho avuto il piacere di confrontarmi con lei, una donna intelligente, capace e sensibile, che mi ha spinto a riflettere su tante questioni sociali di primaria importanza.
Ciao Sabrina, parlami un po’ di te, di dove sei? Cosa fai nella vita?
Mi chiamo Sabrina, ho 22 anni, sono di origine italo-camerunense e sono attualmente studentessa in Sociologia Contemporanea all’ENS-Paris Saclay e alla Sorbona di Parigi, dove mi laureerò quest’anno per la magistrale. Vivo a Parigi da circa sette anni ma Napoli è la città che mi ha cresciuta e che, come il resto dell’Italia, porto nel cuore ovunque vado. Al di là degli studi universitari sono appassionata di fotografia (https://sabrinaonanaphotography.book.fr/galleries/), di disegno e di cinema documentario in generale.
Da dove proviene la tua passione per il documentario?
Ho scoperto la mia passione per il documentario proprio girando Crossing the color line nel luglio 2018. Mi piace molto ascoltare le persone sul loro vissuto, capire cosa pensano e perché la pensano in un determinato modo, per poi cercare di restituire la loro realtà, le loro emozioni ed il loro punto di vista, cercando di far emergere le varie sfumature e la complessità che caratterizzano l’esperienza umana in generale.
L’importanza della testimonianza e quel che provo quando parlo con le persone per portarle a raccontarsi si riassume in questa frase che mi piace molto : “Come il volto si riflette nell'acqua, così il cuore dell'essere umano si riflette nel suo simile.” (Proverbi 27:19)
Dal momento in cui hai avuto in mente il progetto per Crossing the Color Line quali sono state le tappe che hai percorso per arrivare alla sua realizzazione?
Innanzitutto, mi sono informata molto sulle tematiche che volevo trattare attraverso il docu-film e ho riflettuto anche sul mio vissuto da afro-discendente italiana per riuscire a identificare gli argomenti che sarebbe stato opportuno e utile sollevare durante le interviste. Poi ho cercato le persone da intervistare per il progetto tramite i social e ho organizzato un viaggio di circa due settimane in diverse città, quali Milano, Roma e Napoli. Dopodiché, esami universitari finiti, durante le vacanze estive sono tornata in Italia per realizzare il progetto.
Telecamera in spalla, appunti per le domande, e via!
Con Crossing the Color Line hai dato voce a molti ragazzi afroitaliani che non avevano mai avuto spazio nei mass media. Quanto pensi sia importante narrare queste storie in relazione a un possibile cambiamento nella società e nella cultura italiana in generale?
Penso che sia molto importante narrare storie nuove e rappresentare in modo adeguato le cosiddette “minoranze”, soprattutto perché sappiamo quanto il retaggio storico e culturale abbia storpiato lo sguardo che portiamo oggi su alcuni tipi di alterità.
Chi non esce mai dalla propria comfort zone, o perché non può (ma oggigiorno… direi che tutti possiamo) o perché non vuole, ha bisogno che gli si “servano sul piatto” storie che lo costringono a rendersi conto di quanto la sua visione del mondo o di quello che lui considera “altro” sia errata o perlomeno incompleta. É infatti l’allargarsi della propria prospettiva, della propria concezione del mondo e della propria conoscenza, che consente il riconoscimento della pluralità. Pluralità dell’essere, del sentire, del percepire... Senza poi cadere nel relativismo assoluto che impedisce qualsiasi forma di considerazione oggettiva su ciò che è bene o male, rendendo tutto banalmente relativo e divinizzando l’essere umano facendolo misura di tutte le cose (credo sia il problema e il trend delle nuove generazioni di giovani, miei coetanei). Ma ad ogni modo il raccontare storie diverse sconfigge di per sé gli stereotipi, poiché come lo affermava la scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie in un TedTalk del 2009 “raccontare un’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi, ma che sono incompleti”. Quindi la diversità delle narrazioni nel dibattito pubblico e sociale è una necessità, soprattutto in società “multiculturali” come le nostre in quanto è un modo di comunicare diretto ed efficace che erode poco a poco gli stereotipi. Non sempre nei cuori delle persone, poiché come rispose Denzel Washington in un’intervista “you can’t legislate love”, in altre parole, non si può costringere le persone ad amare gli altri, neanche con leggi in favore dell’accettazione dell’alterità. Ma almeno il fatto di raccontare e legittimare storie che normalizzano il presunto “altro”, la propria presenza in società e la propria esistenza tout court, permettono di rendere oggettivo per la società civile il fatto che la sua diversità, che lo rende minoritario, non per forza è sinonimo di barbarie o di devianza. Questo, anche se non garantisce che ognuno sarà capace poi di amare il proprio prossimo al di là di ciò che li separa, permette perlomeno di non assecondare o amplificare gli stereotipi a livello strutturale. La società svolgerebbe allora il ruolo di un educatore rispetto alla percezione dell’alterità, incoraggiando i suoi cittadini a gestirla in modo edificante nelle relazioni interpersonali invece di lottare per preservare l’uniformità (come realtà sociale e culturale o come sentimento rassicurante davanti ad un “altro” percepito come nemico) a tutti i costi.
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Il documentario si struttura a partire da alcune questioni centrali che tu poni ai giovani intervistati, come per esempio il rapporto con il paese d’origine. Qui mi ha colpito molto un pensiero diffuso che Aïcha e Ababacar chiamano “crisi d’identità” e che proviene dal non sentirsi né pienamente italiani né pienamente della nazionalità del paese di origine. Secondo te perché è un sentimento così diffuso e cosa si potrebbe fare concretamente per arginarlo?
La crisi d’identità è un’esperienza consustanziale allo sradicamento (fisico, linguistico, culturale, psicologico ecc.). Se ci si concentra sugli afro-discendenti nel contesto europeo, il fatto che questo sentimento sia così diffuso è dovuto secondo me a vari fattori: gli episodi espliciti o impliciti di razzismo, che attualizzano senza sosta il sentimento di essere “altro”, e radicano nella propria coscienza l’idea sgradevole di essere “inassimilabile”, contrariamente ai figli di immigrati white passing, meno esposti allo sguardo altrui e la cui diversità (culturale ad esempio) può essere più facilmente gestita o nascosta, anche perché in generale si esprime poco rispetto alla cultura italiana che resta ovviamente l’influenza culturale predominante per chi nasce o comunque cresce nel Bel Paese. Poi c'è anche da prendere in conto l’esistenza di un passato storico alienante e disumanizzante per gli afro-discendenti, cioè il colonialismo e la schiavitù. Passato difficile da accettare e discutere da entrambe le parti e al quale si aggiunge spesso, ancora oggi, la non conoscenza del continente africano, affiancata alle retoriche politico-mediatiche contemporanee, confusionarie, fuorvianti e degradanti, sulla povertà, le guerre, le crisi e le malattie in Africa… Poiché non si riesce a parlare di altro o perlomeno ad essere più giusti e quindi più equilibrati nella narrativa che si veicola sul continente africano. Tutto questo può portare addirittura ad interiorizzare il razzismo e gli stereotipi, poiché si cresce in un contesto in cui si è perennemente l’eccezione (spesso in negativo). Eppure un europeo afro-discendente (o afro-peo come alcuni dicono adesso) se va in Africa, ad esempio nel paese d’origine dei genitori, è spesso percepito appunto come “europeo” o addirittura “bianco” per via dei modi di fare e di pensare che ha acquisito nel contesto “occidentale” in cui è cresciuto. Quindi, volens nolens, ci si ritrova continuamente a rappresentare l’alterità e a farne l’esperienza. In fin dei conti il senso di inadeguatezza o comunque il décalage diventa l’elemento strutturante dell’esperienza che si fa del proprio “Io”. A questo si aggiunge spesso anche l’assenza di legame (o quasi) con il paese e la cultura d’origine dei genitori, che rende ancora più paradossale, ingiusta e inspiegabile la propria esperienza o percezione in quanto “altro” e esacerba questo senso di estraneità poiché crescendo, davanti al razzismo subito, non si ha neanche la possibilità di difendersi o di rassicurarsi grazie ad una buona conoscenza, diretta o indiretta, dell’Africa o almeno del proprio paese d’origine, al quale si è spesso rimandati con frasi senza senso del tipo “Torna nel tuo paese!”. Una maggiore consapevolezza fin dalla più tenera età aiuterebbe secondo me gli afro-discendenti a soffrire di meno durante la crescita e a non lasciarsi vincere dalla rabbia, dal rancore o dall’ignoranza e la frustrazione altrui, che ci vengono trasmesse come una sorta di scarica elettrica durante gli episodi di razzismo subiti e di cui, alla fin fine, non sappiamo cosa farcene. Infine, nel contesto italiano si aggiunge a tutto ciò l’incapacità della società italiana di stare al passo con la realtà contemporanea. Questo si traduce tramite l’esistenza anacronistica, difesa e legittimata, dello ius sanguinis ad esempio, che in società globalizzate e di accoglienza come le nostre sembra un controsenso che solo una politica cieca e sclerotica non potrebbe riconoscere come tale. Ma questa arretratezza si traduce anche nell’incapacità a sanzionare comportamenti o linguaggi esplicitamente razzisti, ancora banalizzati. Questo ovviamente incoraggia e normalizza xenofobia e ignoranza, sia all’interno della classe dirigente che tra cittadini “ordinari”.
Facendo alcune ricerche su internet ho letto che ti sei formata accademicamente studiando Scienze Sociali. Quanto pensi che la tua passione e la tua conoscenza di questo campo ti abbiano influenzato nella tua attività da filmmaker?
Molto. Ho girato Crossing the color line alla fine del mio secondo anno della triennale in Scienze sociali e politiche all’Università PSL e Paris-Dauphine. Questo tipo di studi universitari politicizzano molto. Avere delle conoscenze teoriche, di natura storica, politica e sociale non è l’unica cosa che serve per parlare adeguatamente di un tema o di un fenomeno, ma credo sia comunque importante per non parlarne in modo grossolano o semplicistico. Se aggiungi a questo l’esperienza personale, fonte di conoscenza diretta, e l’empatia o altre capacità emotivo-relazionali che ti aiutano ad approcciare le persone nel modo giusto, puoi facilmente trattare in modo abbastanza efficace e “umanizzante” argomenti “sensibili” che per essere approfonditi necessitano di raccogliere le testimonianze delle persone.
Il tuo documentario è una testimonianza importantissima. Hai mai pensato di distribuire Crossing the Color Line su qualche piattaforma audiovisiva a livello nazionale e internazionale oltre Vimeo?
Non mi sono concentrata molto su questo a dire la verità. Sono dell’idea che a volte ad aspettare l’approvazione “dall’alto” si finisce col perdere tempo. Poiché il mio obiettivo attraverso questo progetto era di dare la parola agli afro-discendenti in Italia e di attirare l’attenzione su queste tematiche, non mi disturba il fatto che il film sia in libero accesso su Vimeo. Anche se questo significa che devo pagare mensilmente una somma che permette alle persone di vedere quando e quanto vogliono il docu-film gratuitamente. Ma dopotutto, è il mio primo docu-film indipendente e praticamente auto-prodotto, auto-finanziato e auto-distribuito. Quindi non mi lamento. Poi se ci sono piattaforme più “importanti” interessate al lavoro, ben venga.
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Pensi che negli ultimi anni sugli schermi italiani ci sia stata un’evoluzione per quanto riguarda l’inclusività dei personaggi? Quali sono i passi che l’industria italiana dovrebbe compiere per allargare la rappresentazione delle minoranze?
Anche quando le cose sembrano avanzare lentamente, è giusto sottolineare che c'è comunque un avanzamento. E ci sono persone che lottano da decenni affinché quest’evoluzione possa continuare. Posso citare alcuni esempi di donne afro-discendenti italiane che lavorano sodo affinché la rappresentazione possa essere più giusta e che vanno sostenute nella loro attività, penso a Charity Dago, talent manager e fondatrice dell’agenzia di management per artisti afro-discendenti Wariboko, Daphne Di Cinto, attrice e regista che sta lavorando sul film Il Moro, nel quale troveremo l’attore Alberto Malanchino per il ruolo di Alessandro de’ Medici. Poi ci sono tante, tantissime iniziative che contribuiscono a far cambiare le cose… Il canale Vision Channel Africa Italia, il giornale Black Post Italia, il blog Afroitaliansouls, il podcast BlackCoffee, l’Africa Summer School Italy, il Festival del Cinema Africano, il movimento Italiani senza cittadinanza, il Summit Nazionale delle Diaspore, il portale Nappytalia, l’associazione Afroveronesi, il magazine Nuove Radici…
Le persone che lavorano su questi progetti riassumo attraverso il loro impegno un’idea fondamentale che dovremmo integrare tutti al fine di poterci creare il nostro spazio e la nostra chance, anche laddove non ci viene data: chi fa da sé, fa per tre! Molti si lamentano sui social, va bene, ma non basta. L’attivismo virtuale, basato spesso sulla reazione non-stop e senza discernimento di fronte a fatti di cronaca o polemiche di varia natura, ha il vantaggio di far passare per “leader antirazzista” senza troppi sforzi chi lo pratica, generando likes e audience, ma secondo me è effimero e non ha molto senso, a meno che non si concretizza in un progetto vero e proprio (come alcuni sopracitati). Bisogna lavorare per imporre il cambiamento e non sprecare tempo a polemizzare o elemosinare rispetto, attenzione e considerazione. Quindi lavoriamo, insieme e con determinazione, affinché l’esempio che diamo sul come vogliamo essere rappresentati sia poi assimilato da chi non sa ancora come raccontarci.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Adesso sto lavorando alla seconda parte di Crossing the color line. Sarà un lavoro molto più approfondito e con un taglio più storico rispetto alla prima parte… Non vedo l’ora di presentarvelo ! Per chi volesse sostenere il progetto economicamente, può farlo qui : https://www.paypal.com/pools/c/8cJbkO3OMQ. Ringrazio anticipatamente tutti coloro che, in un modo o nell’altro, parteciperanno. E soprattutto ringrazio Kube Community per l’intervista!
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