a cura di Ludovica Narciso
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Roberta Maddalena, 29 anni e nata a Messina si trasferisce a Milano a 18 anni per studiare giurisprudenza. In realtà la sua non è stata una scelta dettata dal cuore ma dalla testa: non la convinceva l’offerta formativa di scienze della comunicazione della sua città e così decise di optare per un percorso "tradizionale".
La sua prima esperienza lavorativa è stata presso un agenzia di moda dove ha svolto per qualche anno l’attività di assistente di sfilata durante la fashion week di Milano.
La prima vera prova sul campo è stata quando ha iniziato uno stage a Milano da Finanza Fashion, dove ha imparato i primi segreti del mestiere. A seguire, dopo un anno esatto, ha ricoperto la figura di caporedattore moda del settimanale Io donna. E infine Forbes, dove tuttora lavora ricoprendo tematiche quali business, lifestyle e travel.
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Il lavoro del giornalista è soprattutto oggi molto complesso. Era quello che sognavi di fare fin da piccola? Come hai capito che sarebbe stata la tua strada?
Si, era proprio quello che ho sempre sognato. Certo, quando ero piccola non sapevo ancora quanto sarebbe stato complesso…ma ho capito di volerlo fare quando ho visto per la prima volta mio nonno scrivere con la sua Olivetti verde. Il rumore di quei tasti, il fatto che da quei tasti potessero nascere parole mi affascinava. Quindi ho pensato: “anche io da grande voglio raccontare delle storie”.
Il progetto Forbes Women: come è nato e come si è sviluppato? Cosa rappresenta per te?
Forbes Women è davvero un bel traguardo. Nasce dall’idea di voler raccontare le storie di donne straordinarie, ma anche straordinariamente comuni, che con la loro grinta hanno centrato l’obiettivo. Al momento rappresenta solo l’inizio, ho molto da imparare e migliorare ma sono sicura mi sarà utile per crescere nei prossimi anni.
Le donne che occupano posizioni manageriali in Italia sono ancora poche rispetto agli uomini. Cosa pensi che possa davvero creare un cambiamento? E cosa è cambiato negli ultimi anni?
Il tema del gender gap mi sta molto a cuore. E i dati, purtroppo, non sono per nulla incoraggianti. Nelle aziende italiane se ne parla poco e male: ho l’impressione che ci sia molta confusione su cosa rappresenti questo problema per la società. Io penso che qualsiasi cambiamento, per trovare terreno fertile, debba partire dalla cultura. E non si costruisce cultura senza educazione. Quando andavo a scuola non ricordo di aver mai sentito parlare di questo tema, eppure esisteva già. C’è sempre stato. Mi piacerebbe che si cercasse di educare già dalla scuola elementare i bambini a prendere atto di questa differenza e crescere ribaltando i ruoli. Mi piacerebbe assistere a più dibattiti in televisione, in radio, sui social. Ma non come l’ennesima manipolazione per sventolare la bandiera del femminismo (che così come ce lo raccontiamo oggi è completamente distorto), ma per fare delle scelte più sagge domani. E insegnare ai nostri figli che il genere non può più essere, dopo anni di conquiste e sfide come quella per il voto delle donne, un fattore discriminante. Cosa è cambiato di recente? Per fortuna qualcosa, ma non abbastanza. Vedo donne che non abbassano più la testa così facilmente, che scrivono libri coraggiosi (ad esempio l’ultimo della Gruber), che fondano movimenti e correnti di pensiero, che gridano basta. E ultimamente, lo vedo accadere spesso anche su Instagram.
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Il digitale ha rivoluzionato il mondo dell’editoria, secondo te ha creato nuovi orizzonti o ha posto dei limiti al vecchio modo di comunicare?
La prima opzione. Peccato che, specialmente in Italia, non siamo stati in grado di abbracciare questa rivoluzione in tempo: prima l’abbiamo criticata, poi era tardi e abbiamo dovuto accettare di salire a bordo. Tipico della nostra cultura. Ma c’è un dato positivo: la comunicazione è già cambiata. Adesso oltre alla dimensione visiva è subentrata quella audio (pensiamo ai podcast praticamente su ogni cosa) e anche il mondo dell’editoria si sta adeguando. In che modo il digitale ha cambiato le regole del gioco? Ora è tutto più diretto, immediato; se comunichi un messaggio poco coerente, o meno convincente, perdi credibilità in maniera più netta perché, oggi, il confronto si fa “live”.
Quanto è importante secondo te che giovani ragazze portino avanti progetti qui in Italia? Credi che il nostro paese sia a favore di una parità di genere dal punto di vista lavorativo?
Credo che sia molto importante, se non decisivo. Sai qual’è la parte più bella del mio lavoro? Poter conoscere ragazze che sognano in grande, lasciano posizioni comode per lanciarsi in sfide scomode. La parità oggi è un’utopia, sarebbe già un buon inizio ammetterlo invece che continuare a tenere la testa sotto la sabbia.
Cosa consiglieresti a chi vorrebbe intraprendere il tuo stesso percorso? Da dove bisogna iniziare e cosa tenere sempre a mente?
Sei anni fa ti avrei risposto che bisogna partire da un percorso di studi appropriato, consono. Oggi invece ti rispondo che l’importante è aggiornarsi costantemente: non incide solo il percorso di laurea. Fa la differenza leggere molto, viaggiare, confrontarsi con persone diverse, che hanno idee diverse dalla tua perché solo così potrai crescere. Sembrerà banale, ma una regola su tutte è niente “comfort zone”.
Dove ti vedi da qui a 5 anni?
Questa domanda non me l’aveva mai fatta nessuno finora. Diciamo così, dove sarò non me lo domando. Ma mi auguro di essere una donna più consapevole e sicura delle mie scelte. In modo da saperle portare avanti con ancora più convinzione di oggi e ispirare gli altri a fare lo stesso.
Un libro che consiglieresti alla nuova generazione di donne digitali?
La “Biografia di Steve Jobs”, “Storie della buonanotte per bambine ribelli” e tutti quelli di Michela Murgia (mi piacerebbe un giorno poterla conoscere di persona).
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