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Sapete cos’è la Biodiversity Strategy 2030? Parte dell’ European Green Deal, è
il progetto dell’Unione Europea per la protezione della biodiversità e degli
ecosistemi. Fra le iniziative, la promessa di trasformare il 30% del territorio
dell’unione in Area Protetta, ma anche attività extraeuropee, come il
programma di conservazione NaturAfrica.
Questa strategia nasce come una contraddizione: l‘EU vuole proteggere
l’ecosistema, ma con la PAC incentiva i grandi allevatori che importano
mangime, la cui produzione è la causa prioritaria di deforestazione e perdita di
biodiversità. Non solo: è la principale minaccia ai territori delle popolazioni
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Ed è proprio sul trattamento delle popolazioni indigene che si sono espressi i timori di alcune associazioni umanitarie. Timori ben fondati: fino a poco tempo fa,
l’EU ha finanziato il WWF per la creazione di un parco a Messok Dja, in
Congo. Per il quale le popolazioni locali sono state cacciate, anche tramite
stupri, torture e uccisioni. Queste violenze non sono un caso isolato, ma il
sintomo più evidente della modalità discriminatoria con cui si fa conservazione.
Partiamo dall’inizio. Da dove nascono i grandi parchi naturali in Africa?
Molti erano riserve di caccia per l'élite bianca locale, spiega Guillaume Blanc in
“L’invenzione del colonialismo verde”. Territori, quindi, considerati “vergini e
inabitati” (falso: sono sempre stati popolati), e riservati allo sfogo dell’ego
patriarcale del colonizzatore, il cacciatore virile.
Questa figura è confluita poi in quella del conservatore, del white savior
protettore della natura. E la protegge da quelle stesse persone che però, nella
natura, ci hanno sempre vissuto, e sostenibilmente. Che sono una minaccia
solo per quell’ ”Eden” mitico e del tutto costruito. Se andiamo sul sito
dell’UNESCO, i territori francesi sono “da preservare” perché testimonianza di
tecniche agricolo-pastorali, mentre queste stesse tecniche diventano
improvvisamente un “pericolo” quando sono esercitate da persone africane.
Alla base, una scienza intrisa di questi preconcetti: gli ecosistemi africani sono
stati misurati con metri (o piedi) europei, i metodi di conservazione occidentali
sono stati elevati al di sopra di quelli locali, e di conseguenza, terre e risorse
Ma molte popolazioni indigene conoscono metodi di sussistenza basati sul rispetto della Terra, consapevoli dell’inscindibile legame fra la sua sopravvivenza e la nostra. Sono i migliori protettori degli ecosistemi in cui vivono. Non a caso l’80% della biodiversità e i 200 luoghi più ricchi di specie nel mondo coincidono con i territori delle popolazioni tribali.
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Eppure, quando si parla di conservazione in Africa, poche volte è stato dato agli
africani, citando Solange, a seat at the table. E lo stesso accesso ai fondi messi
a disposizione dall’Unione Europea è difficile, spiega l’attivista Hindou
Oumarou Ibrahim. Complicato e burocratico anche per gli europei, diviene
impossibile per i cosiddetti “stakeholder” appartenenti a culture differenti: e
quindi sono finanziati più facilmente progetti distanti dalla loro visione.
Per mettere questa visione in primo piano, dobbiamo decolonizzare la nostra
idea dell’Africa (del mondo!), della natura e della cultura: conservazione e
scienza devono dialogare sullo stesso piano con i saperi tradizionali indigeni,
senza paternalismi. Non sono prodotti inferiori, ma semplicemente differenti.
Anzi: nei territori dove sono nati, diventano prioritari per la loro conservazione.
In India, uno studio sulla nomenclatura delle popolazioni locali ha identificato
50 nomi diversi per quelle che, secondo la nostra tassonomia, sono solo 12
specie di alghe: se dall'esterno si riesce a vedere solo il presente, dall'interno
sono chiari anche passato e futuro. Un futuro in cui la natura è protetta e protettrice.
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