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Narrazioni Tossiche: come il linguaggio dei media uccide

“Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. E’ una morte civile, ma non per questo fa meno male. E’ con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse.”

Questa frase, con cui decido di aprire l’articolo, è tratta dal libro di Michela Murgia “Stai zitta”, uscito da poco nelle librerie.


Il linguaggio uccide e noi siamo i diretti responsabili, basta leggere un articolo di giornale, accendere la televisione, guardare un film o ritrovarsi con degli amici davanti ad un caffè, non diamo importanza al modo in cui ci esprimiamo o alla possibilità di ferire qualcuno.



Lo vediamo anche in maniera massiccia nell’ambito politico, in particolare in questo momento con la discussione della Legge Zan, una legge che riprende il nome dal suo relatore Alessandro Zan, che ha lo scopo di tutelare tutte le persone da discriminazioni e violenze fondati su motivi di sesso, di genere, di orientamento sessuale, di identità di genere e di disabilità.


Le critiche più ricorrenti a questa legge sono indirizzate al linguaggio: “Non si può più dire niente”, come se la Legge Zan ostacolasse o limitasse la libertà degli altri. Il limite dove viene posto? Nel poter non insultare un'altra persona? Trovo assurdo, personalmente, sentire un limite tramite una legge che invece tende a tutelare tutte le persone, anche gli uomini, bianchi, etero, cis, nessuno escluso.


Il “Non si può più dire” è talmente ricorrente che fa parte del nostro linguaggio quotidiano e almeno una volta al giorno, a cena con i tuoi genitori o aprendo Instagram, la troviamo lì, senza argomentazioni, ma con un attacco che diventa sistematico e tende a far tacere l’altro.


No, non può più dire niente se offendi, umili, denigri un’altra persona.


E che fai? Non butti nella mischia anche il politicamente corretto?

Se nel politico troviamo un circo, non è da meno l’ambito giornalistico e non si ha neanche bisogno di leggere interamente un articolo per rendersene conto, il titolo basta.

Nel periodo di Sanremo, in Italia, tocchiamo l’apice di questo marcio linguaggio in cui le donne sono al centro del mirino con il loro seno, il loro corpo che diventa merce di tutti, dal privato al pubblico senza consenso.

La sessualizzazione del corpo femminile inizia proprio dalle parole, dal linguaggio: “Gaia, abito blu e scollatura vertiginosa all’Ariston con l’inquadratura hot”, “Elodie, incidente hot all’Ariston: inciampa sulle scale e dallo spacco vertiginoso si intravede tutto.”

Cosa hanno in comune? Il corpo delle donne e la sua sessualizzazione.


Se Sanremo e gli articoli che girano intorno ad esso delimitano la donna ad un oggetto sessuale, merce per poter scrivere un articolo scadente, negli articoli che trattano di femminicidio le donne diventano colpevoli.


Il processo è sempre lo stesso:

- La vittimizzazione del carnefice e la colpevolizzazione della vittima: “È una brava persona, salutava sempre, ogni domenica andava a messa, poi lei lo ha lasciato e lui l’ha uccisa”. Ecco, stiamo assistendo ad un’empatia con il carnefice, il suo gesto è una conseguenza della donna, quindi è colpa di lei, se non l’avesse lasciato lui non avrebbe mai fatto una cosa del genere, dimenticando che il femminicidio è il fine. Esso, infatti, porta con sé un bagaglio di violenze fisiche, psicologiche, economiche, sociali, c’è quasi sempre un trascorso di violenze che culminano, appunto, nel femminicidio;

- Il comportamento maschile è una diretta conseguenza del comportamento femminile;

- Il nome della vittima spesso non compare nell’articolo. Lei sparisce.


Questo processo quali conseguenza ha? Influenza l’opinione pubblica in modo da giustificare il carnefice, colpevolizzare la vittima e il femminicidio viene confinato ad un problema solo femminile che viene svalutato e screditato, lo abbiamo talmente interiorizzato che non ci smuove più.

Il linguaggio quale ruolo ha in questo? Fondamentale.

Invece di “L’ha uccisa perché lei voleva lasciarlo” ci fosse scritto “L’ha uccisa perché non riusciva a rispettare la scelta della compagna”? Notate una differenza?


Del linguaggio ne parlava già Alma Sabatini nel 1987 concentrandosi su quanto fosse fortemente sessista e androcentrico. Non è cambiato molto da quel lontano 1987.


I media pubblici rafforzano il privato, è una catena di montaggio. X ha detto questo in televisione, Y che guarda quella determinata trasmissione assimila quel concetto e da Y passa poi a A, B, C nel quotidiano della propria casa, dal padre al figlio, diffondendosi così velocemente si consolida e diventa parte della società, del nostro linguaggio.


Il linguaggio uccide e a nessuno sembra importare, ma quella catena di montaggio può essere arrestata con un lavoro collettivo, con una discussione, argomentazione, penetrando nell’ambito pubblico come, per esempio, in una trasmissione televisiva molto seguita o in una classe di studenti, al privato, come l’ambiente domestico.


E se, appunto, il linguaggio uccide, noi dobbiamo renderlo inclusivo, dobbiamo utilizzare il linguaggio per abbattere il pregiudizio, lo stereotipo, per combattere una società patriarcale che ci ha ingoiati. Siamo nella bolla del patriarcato.


Come possiamo farlo?

L’attenzione, essere attenti a quello che si dice è il primo passo per rendere un linguaggio inclusivo.

La comunicazione attraverso i media.

L’educazione nelle scuole.


Possiamo modificare il linguaggio perché il linguaggio uccide.
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