Il 3 aprile il termine “telegram” è finito primo in tendenza su Twitter poichè segnalata l’esistenza di un gruppo, appunto su telegram, in cui quasi 50 mila membri si scambiavano foto di ragazze nude, pedopornografia, video, dati personali e semplici selfie senza nessuna forma di consenso da parte delle vittime. La notizia è finita immediatamente per essere l’hot topic in questi giorni e sono stati subito pubblicati articoli riguardanti la faccenda, parlando di revenge porn, cultura dello stupro, stupro digitale, slutshaming e molto altro. Il problema qual è? Che non si tratta di una notizia. Una notizia è una novità, un qualcosa di nuovo, e questa, cari miei, non lo è.
Non è una notizia che il corpo femminile venga visto come un oggetto sessuale privo di valore alla merce del maschio.
Si tratta quindi di voler rendere noto il fatto che NON sia una notizia, sottolineando come la reazione di qualsiasi ragazza non sia stata di stupore e di come queste situazioni siano all’ordine del giorno.
Questo boom mediatico attorno a un piccolo gruppo di telegram - perchè è uno dei tanti gruppi, e solo alcune delle tante persone su una delle tante piattaforme - ha aperto un vaso di pandora. Il radicamento del patriarcato nella nostra cultura è un cosiddetto elefante nella stanza: un problema di grossa portata che viene minimizzato e talvolta ignorato.
Spesso ci si indigna quando al telegiornale si parla di femminicidio, stupri, colate di acido sul viso di ragazze sconosciute. Le molestie e il maschilismo però non sono solo gli esempi prima citati, ma una buona fetta di comportamenti quotidiani di cui potremmo essere testimoni. Ma dove si racchiude il maschilismo? Quali sono i fenomeni che forse non sono così palesi?
Lo scopo di questo articolo è di indicare questo enorme elefante presente nella stanza che chiamiamo società, di far capire quanto di quello che chiamiamo quotidianità sia invece espressione di un meccanismo patriarcale e di insegnarvi a riconoscerlo e far sì che non continui.
Ci sono molti termini che in questi giorni sono stati utilizzati riferendosi alla faccenda avvenuta su telegram, ed è mia intenzione fare un po’ di chiarimento.
Partiamo con il più nominato: il revenge porn.
Quando si usa questo termine ci si riferisce alla diffusione pubblica online di materiale (foto o video) di natura intima e privata senza il consenso da parte del soggetto in questione. Io invio una foto a Osvaldo, Osvaldo ha questo lampo di genio e decide di inviare la foto del mio culo a tutti i suoi amici. Bene Osvaldo, ti aspetta la legge “Codice Rosso”, che si occupa tra le varie cose proprio di questo. Ah, anche Umberto che l’ha inviata a sua volta dopo averla ricevuta da Osvaldo, verrà punito. Il revenge porn però non è una mera diffusione di foto, ma porta in alcuni casi a situazioni gravi come il licenziamento di alcune persone o addirittura al suicidio. Scavando più a fondo ci si rende conto di come a sua volta il termine non sia così giusto: il termine revenge, ossia “vendetta”, porta a colpevolizzare in qualche modo la vittima; il termine “porn” a sua volta intende una clausola di consensualità che in questa situazione è del tutto assente. Vedete come il patriarcato è così radicato? Ma andiamo avanti.
Slutshaming.
Alzi la mano chi non è mai stata definita troia. Partendo dal fatto che innanzitutto il bellissimo binomio santa/troia sia ancora saldo nonostante sia il 2020, a chiunque sarà capitato di definire una ragazza “troia” o di essere stata definita tale. Ci sono infiniti esempi (la gonna corta, la foto in costume, l’orientamento sessuale, il modo di parlare, il trucco, i modi di fare, il parlare di sesso in maniera aperta…) che rientrano in questo enorme calderone che vede la donna come un oggetto sessuale e la colpevolizza per questo. Vale anche per tutte quelle povere ragazze con cui ci ha provato il vostro ragazzo e che automaticamente avete chiamato così.
Sessualizzazione, oggettificazione, mercificazione del corpo femminile.
Questi termini si utilizzano per definire quel modo di vedere e di trattare il corpo femminile, dandogli innanzitutto una connotazione sessuale a priori, vederlo scisso da una persona e considerarlo come un oggetto utile solo al proprio desiderio. Mercificare un corpo, inoltre, significa utilizzarlo banalmente come merce di scambio: dalla mera prostituzione all’utilizzo di una donna formosa in una pubblicità. Rape Culture La cultura dello stupro è un concetto sociale riferito a un contesto in cui lo stupro è incoraggiato o normalizzato. Un esempio? il gruppo telegram in cui si spalleggianoa vicenda. Ve ne do un altro: quando una ragazza viene stuprata tornando dalla discoteca e l’opinione popolare vede lei colpevole per essersi messa in quella situazione.
Cat-calling
“A FIGAAAA”.
Commenti decisamente non richiesti, spesso legati al corpo, ricevuti per strada. Il fischio dalla macchina al semaforo, l’urlo dall’altra parte della strada, il commentino quando cammini per i fatti tuoi. E non sono complimenti, non dobbiamo essere grate delle vostre attenzioni non richieste, non ci fa piacere.
Mi piace analizzare un problema e scomporlo in piccolissimi passaggi, poi di colpo allontanarmi e guardarlo nel suo intero per scoprire da cosa sono legati i tasselli, e capire che il fulcro del problema sta proprio in quel collante.
Di tutti questi fenomeni, di tutte queste vicende, di tutti questi episodi ci ho trovato un collante con una composizione chimica simile a questa, che semplifico per lasciarvi liberi dalle grinfie delle mie parole: la svalutazione generale della donna e la colpevolizzazione della sessualità femminile. Una donna vale meno di un uomo. La sessualità non le appartiene ed è colpevole se la riguarda.
La situazione attuale, che è migliore rispetto a quella passata, è questa. Io credo nel potere delle persone e so che ci vuole un impegno da parte di ognuno di noi affinché non siano parole al vento. Bisogna in primis informarci, convivere, comunicare e agire affinché le cose migliorino.
Ps. Maschietti parlo a voi: solo perché non fate parte dei “cattivi” non vuol dire che non dobbiate fare la vostra parte per far sì che questo finisca.
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