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Illustrazione, pittura, moda, teatro e cinema sono solo alcune delle grandi ispirazioni di Delia Simonetti che vengono rielaborate nei suoi cortometraggi, nei suoi videoclip e nelle sue foto. La sua ultima opera, il videoclip di Foreplay di David Blank ft. PNKSAND uscito lo scorso ottobre, è una colorata e rinascimentale celebrazione del talento afroitaliano in Italia, una vera e propria boccata d'aria nel nostro panorama audiovisivo. Qualche settimana fa ho avuto il piacere di chiacchierare con Delia della sua carriera, della sua autorialità ma anche dell'inclusione (mancata) nel mondo dell'intrattenimento.
Com’è iniziata la tua carriera nel mondo dell’audiovisivo?
Io ho recitato per anni a teatro da ragazzina, dagli 11 ai 15 anni, dopodiché mi è stata diagnosticata una paralisi a una corda vocale quindi ho smesso. Avevo l’idea di spostarmi come regista in campo teatrale, in realtà poi i primi giornali di moda che ho comprato mi hanno colpito come un mattone in testa e quindi ho proprio virato su quello. Ho fatto fotografia per anni, ma anche cameraman, assistente alla regia a Roma, sulle pubblicità, sempre da molto molto giovane perché sono una grande quitter delle scuole, qualsiasi scuola che ho iniziato l’ho lasciata e sono andata a lavorare da qualche parte. Diciamo quindi che ho fatto fotografia per anni, soprattutto foto di moda però il video c’è sempre stato, non è stata una transizione pura e uno stacco netto. Ho sempre fatto anche videoclip più indipendenti etc. e poi mi sono spostata totalmente.
Quello con il cinema è stato un incontro casuale?
Da piccola non lo so, ovviamente ho sempre guardato tanti film come tutti però devo dire che quando ero ragazzina il mondo del cinema mainstream per me era molto staccato dal mondo del teatro, anche oggi ma soprattutto una volta se cercavi delle opere più oniriche dovevi andare su registi come Tarkovskij, Fellini, sui grandi autori insomma, ma avevi anche un po’ meno mezzi. Io direi che la scoperta del videoclip è stata verso i vent’anni, ero rimasta molto colpita dai videoclip dei Röyksopp, i video di Martin De Thurah… era un momento molto sperimentale dieci anni fa.
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Ho letto su internet che per lavoro ti sposti molto, quanto pensi che il viaggiare abbia influito su di te come persona e sulla tua arte? C’è una città a cui ti senti più legata?
Influenzare sicuramente influenza, però mi rimangono molto le persone, sono poco affascinata dai luoghi. Mi sono spostata molto per lavoro ma sono molto cinica, non ho mai avuto la cosa di “andiamo a Londra cambiamo vita”, non ho mai avuto molta fascinazione per le città di per sé. Sicuramente mi sono rimaste molte persone e sicuramente Londra è stato un posto in cui sono stata molto e dove ho studiato, è un posto che mi manca molto però più a livello umano, ogni posto ha per me i pro e i contro.
Ti occupi di videomaking di moda, di finzione e videomaking pubblicitario, c’è uno di questi “generi” che prediligi?
Direi di no perché tante cose si innestano in qualche modo, il video di moda può andare verso fiction (opere di finzione, ndr) e il videoclip idem può essere molto onirico, direi una via di mezzo. Mi piace quando si intersecano le cose, forse.
Il videoclip di Foreplay di David Blank e PNKSAND uscito lo scorso ottobre è un video che celebra la diversità, l’identità e la bellezza. A quale concept vi siete ispirati tu e David per idearlo?
L’idea di avere più protagonisti era di David e dell’art director Protopapa, che volevano qualcosa che rappresentasse i talenti afroitaliani. Per me però era importante unire una sorta di passato artistico e presente relativo all’Italia, nel senso che molto spesso il prodotto italiano che esce non contempla nessun tipo di diversità. Io mi ricordo che appena uscito il video di Garrone per Dior era tutto ovviamente ispirato soprattutto al rinascimento, quindi era tutto Botticelli etc. però le persone erano prese proprio in un modo prettamente iconografico, cioè la Venere di Botticelli ha quei capelli lì quella pelle lì e veniva trasposta pari pari. In quel video c’era stata la critica che non ci fosse assolutamente diversità. Io volevo cercare di creare un punto dove sì, quasi tutte le pose sono prese dall’arte italiana classica e rinascimentale e poi l’art pompier, però semplicemente ricreate. Era un po’ un voler dimostrare che un ponte c’è, nel senso che sono degli archetipi che vai a riproporre e puoi riproporli con chi preferisci.
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Ho sbirciato gli altri tuoi progetti, come ad esempio il cortometraggio I see trees of green, selezionato al Berlin Commercial. Tu lo definisci uno “stream of consciousness film” riguardante il mondo intorno a noi e alla natura, puoi parlarci del suo significato intimo e -perché no- politico, in un mondo piegato dall’inquinamento?
L’idea di quel video è nata dal fatto che le ragazze della fanzine SOAPOPERA stavano facendo un numero sulla natura e il testo che veniva dato nel loro trattamento del numero era What a wonderful world di Louis Armstrong che è spesso visto in un’accezione molto contestualizzata a quegli anni lì ed è un pezzo visto in un modo molto scanzonato. Io mi sono detta che il testo in realtà non mi sembrava scanzonato, nel corto il mio parlato riprende il testo di What a Wonderful World privato del ritornello, fondamentalmente. Armstrong stesso aveva detto, forse addirittura nell’inizio della registrazione prima della canzone vera e propria, c’è la sua voce che dice “i ragazzini mi chiedono come fai a vedere del positivo perché tutto il mondo sta andando in rovina, c’è l’inquinamento etc.” -e già all’epoca era vista così- “ma io penso che sia un mondo bellissimo” e poi parte la canzone. Sì, quindi è uno stream of consciousness perché per me va di continuo tra il fuori e il privato, ci sono delle immagini di cellulare e invece poi ci sono immagini d’archivio molto belle. Per me era forse un po’ più sociale che sulla natura in un senso di inquinamento, era un po’ totale, anche sulle persone, sui movimenti politici, un po’ su tutto. In relazione al tema invece più relativo alla natura era importante per me che fosse anche collegata innanzitutto alla dimensione privata delle persone e anche a una dimensione politica delle persone.
Una cosa che emerge dai tuoi lavori è una grande consapevolezza della tua estetica e del tuo storytelling personale. Puoi raccontarci cosa ti ispira nella tua arte e come elabori gli spunti creativi?
Secondo me partendo dal teatro io ho sicuramente un’ossessione sugli archetipi in generale quindi mi piace quasi il figurino, il tarocco. Questa era un’idea che c’era anche su Foreplay, questa delle figure che simboleggino qualche cosa, uno stato d’animo etc. quasi estrapolato, quindi sicuramente mi ispira molta illustrazione soprattutto per ragazzi, io per esempio sono molto legata a vari illustratori di Peter Pan ma anche molto a qualcosa di astratto, molta pittura che è qualcosa che seguo sempre molto e molto teatro soprattutto quello più innovativo legato al gesto, legato al mimo, quindi lo studio del gesto forse è la cosa che mi interessa di più per quanto riguarda la registrazione. Mentre invece per quanto riguarda il montaggio, luci etc. sono anche semplicemente ispirata da artisti contemporanei che seguo, videomaker contemporanei che sono invece un po’ più freschi un po’ più d’azione in qualche modo.
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Hai in questo senso degli artisti di riferimento o delle correnti creative a cui ti rifai?
Ci sono tantissimi nuovi registi di videoclip, seguo sempre molto l’underground inglese, che sono interessanti e sperimentali soprattutto nella struttura. Consiglio Alonzo Hellerback, Taz Tron Delix, Mafalda Finn, Douglas Ratzlaff Bernardt e di più “famosi” Roger Guàrdia e Frank Lebon. Sono poco una purista del cinema, le mie ispirazioni le prendo tantissimo dall’arte, dalla pittura, dall’illustrazione, dalla fotografia e dal videoclip e sempre dal teatro e poi anche dal videoclip.
Come definiresti la tua esperienza da spettatrice cinematografica? Cosa guardi e cosa ti piace? Ci consiglieresti qualche titolo?
Io sono una grande fan di tutto il lavoro di Céline Sciamma, soprattutto l’ultimo film, Ritratto di una giovane in fiamme ma anche Andrea Arnold, tutto, sono sempre state un po’ le mie preferite. Bertrand Mantico anche è stato un amore fulminante. Poi sarò banale ma ultimamente sono ossessionata dalle due serie di The Haunting su Netflix, Bly Manor l’ultima è proprio un esempio di diversity cast secondo me fatto davvero molto bene, è interessante perché è una formula un po’ teatrale dove hanno sempre lo stesso cast e lo spalmano su ruoli diversi ed è un po’ semplice su alcune cose, però in realtà ha già un po’ più di guizzo rispetto a tante altre serie.
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Sei l’unica persona che mi ha nominato registe donne! Per quanto riguarda la rappresentazione e la diversità a che punto siamo secondo te soprattutto in Italia e cosa ci manca rispetto agli altri paesi italiani, qual è la tua opinione da videomaker che ha viaggiato per l’Europa?
L’Italia secondo me è in un punto critico perché ha una parte secondo me positiva rispetto ai paesi anglosassoni, l’italiano non ha il concetto di politicamente corretto, quando fa una cosa vuole sapere se sia proprio la cosa giusta, difficilmente ti trovi di fronte a persone che ti danno l’opportunità perché devono farlo perché glielo ha detto la produzione, perché in realtà non capiscono bene cosa stanno facendo. La parte negativa dell’italiano è che c’è questa giornalista, Chiara Zanini, che aveva segnalato che molti festival non includono nemmeno una regista donna su una rassegna di 50 film e spesso la cosa è “ma no, noi non guardiamo il genere prima della submission” e lì dici “vabe, ma guardalo” ovviamente sembra strano! “Non ci è arrivata richiesta da nessuna regista donna”, anche lì sembra strano, però è anche vero che io ho avuto moltissimi problemi di sessismo abbastanza cavalcante nella scuola di cinema che frequentavo a Londra, dove si ragionava molto per binarismo di genere, quindi noi persone non-binary, perché io in realtà sono genderfluid, non eravamo assolutamente calcolate. Quello che è stato chiaro era che gli insegnanti poi non capivano perché dovessero fare una selezione che includeva il 50% di studentesse donne e questa cosa si tramutava poi durante l’anno scolastico in un forte ostracismo, perché loro pensavano che chi era una ragazza e fosse lì, era lì senza merito e che fosse lì per una sorta di quota rosa, quindi loro eseguivano ma non erano consapevoli, non erano convinti. Quindi è un po’ diverso perché sicuramente l’italiano ha questa cosa positiva che non voglia fare la bella faccia, ma allo stesso tempo però rifiuta di sedersi e capire cosa sta succedendo. Allo stesso tempo nei paesi anglosassoni è vero che è utile essere più avanti a livello legislativo, sicuramente utili sono certi movimenti come Free The Bid, per avere più persone, soprattutto donne e per la diversity all’interno del mondo dello spettacolo. L’altra faccia della medaglia è che tanta gente non sa assolutamente ciò che sta facendo e perché lo sta facendo. Quindi lo fanno perché lo devono fare ma sono scontrosi e comunque pensano che sei lì e non te lo meriti tanto.
Ne approfitto per chiederti della notizia delle categorie gender neutral al festival di Berlino, passo avanti o mossa superficiale?
Beh, era stata una cosa molto discussa. Secondo me la base è che questa cosa non ha tanto senso se c’è un gender gap in quanto paghi gli attori e le attrici, quindi c’è una parte di facciata. Tra l’altro facendo così stai anche tagliando un premio quindi ti risparmi dei soldi. Era stato preso in vari modi, tra l’altro io ho anche il sospetto che miglior attore e miglior attrice in molti festival a livello economico non si equivalgano. Quindi il premio vale di più per miglior attore. Sicuramente però a livello di logica ha senso, se ci pensi, perché non puoi premiare solo la miglior performance che c’è stata quell’anno lì? Anche qui dipende un po’ come lo fai.
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L’accesso alla diversità rispetto alla “norma patriarcale” è comunque limitatissima, è vero! Penso anche al 2019 dove sono usciti tantissimi bei film diretti da donne ma solo uno è riuscito ad approdare agli Oscar…
Questo a livello imbarazzante, anche l’ultimo della Sciamma era proprio da oscar, ma c’era anche The Farewell che era bello, c’erano molti film, non se n’è visto nessuno. Oppure si continua a premiare Polanski, i francesi in questo sono ossessivi e lo capisco per carità, però una persona a quell’età lì puoi anche non dargli sempre il premio. A volte sembra lo facciano più loro per posizione rispetto a chi fa un attivismo onesto, è più una posizione voler premiare Polanski non per Rosemary’s Baby ma per l’ultimo film che ha fatto, tra l’altro un chiaro riferimento al suo caso e al j’accuse. Il problema però è sicuramente l’accessibilità e la forma mentis e il fatto che ancora comunque di media una ragazzina a cui piace il cinema vuole fare l’attrice mentre un ragazzino vuole fare il regista. È proprio come tu osservi e recepisci quello che ti viene passato, il fatto che alle ragazze hai insegnato di andar bene a scuola, quindi tu vai nelle scuole di cinema e tutte le più brave sono ragazze. Poi però uscite lì vanno a fare, e son bellissimi lavori necessari, produzione, segretarie di produzione, c’è tutta quella parte lì perché comunque spesso alla donna è insegnato ad andare molto bene a scuola, poi però gli manca l’arroganza di prendersi delle posizioni e non è nemmeno detto che uno voglia essere arrogante, però i ragazzi se le prendono così. Ma per esempio a scuola parto dal fatto che le ragazze alzavano sempre la mano e i ragazzi parlavano e basta, le ragazze si scrivono tutto, ai ragazzi non ho mai visto nemmeno un taccuino, secondo me c’è un po’ quella cosa lì.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Ho in progetto sicuramente un altro paio di videoclip, però appunto siamo ancora in trattativa per tutta la situazione attuale, ho un fashion film -a parte lavorare, più in pubblicità e moda- e poi mi sto affacciando a fiction, che vuol dire definire meglio le idee, lavorare con un’autrice e cercare di venirne a capo, però è una cosa molto lenta. Quello che ho in mente è un corto per un lungo. A livello di fiction il problema è che non ho cortometraggi e quindi è molto difficile presentarsi per un lungometraggio se non si ha il corto, quindi è un po’ a step.
Che consiglio daresti ad una persona che vorrebbe intraprendere il tuo stesso mestiere?
Da un lato innanzitutto capire che lavoro sto facendo io! Adesso che questi lavori sono molto fluidi, dipende. Per quanto riguarda regia di fiction sicuramente è utile entrare nelle scuole quelle grosse perché hanno un nome e hanno praticamente un’entrata garantita ai festival e sono molto spesso su selezione quindi sei abbastanza sicuro che se ti hanno preso è perché gli interessa quello che fai e se sei molto bravo ci sono anche delle borse di studio. Su fiction purtroppo è quasi un po’ l’unica oramai perché le scuole hanno proprio un ingresso facilitato. È molto difficile dal nulla riuscire ad entrare in un percorso un po’ più canonico e grosso e invece per quanto riguarda videoclip, pubblicità e video moda secondo me l’unica è buttarsi nel mondo in cui ti interessa lavorare e iniziare a farlo. Proporsi, mandare mail a tutti, chiamare tutti, chiedere, chiedere di prendersi un caffè, martellare un po’ ma essere onesti con se stessi e sapere dove si è posizionati, senza scrivere a realtà troppo grosse ma andando a step. Il rischio – a meno che uno non voglia fare semplicemente fiction e andare avanti in quel binario lì- di passare da una scuola all’altra è il rischio di essere poi molto timidi, voler avere una super preparazione ma poi non avere un’esperienza sul campo, mentre spesso è richiesto più che altro che tu sia un po’ più flessibile, sveglio e che tu non stia in mezzo alle scatole a nessuno. Spesso io ricevo mail di persone che mi chiedono se ho bisogno di un assistente precisando che loro non hanno esperienza pregressa, che possono portarmi le borse e il caffè e io non sono uno schiavista e non ho bisogno di persone che mi portino borse e caffè ma ho bisogno di qualcuno che lavori, non di qualcuno che faccia le fotocopie. Dire “sto lì e guardo” è un approccio molto sbagliato, perché ovviamente su un set si utilizzano marchingegni dove non si ha voglia di una persona che stia in mezzo alle scatole. Come faccio quindi a farmi la prima esperienza? Mentendo e dicendo che l’hai già fatta prima, è un po’ l’unica, perché si parte un po’ così. Dici “l’ho già fatto”, la prima volta che ti trovi su un set ti viene da piangere e le sbagli tutte e lo capiscono che è la prima volta, perché poi si sgama, però è apprezzabile vedere qualcuno che si mette in gioco. Spesso vedo persone che, soprattutto se hanno fatto tante scuole, magari sono già stanche e si aspettano di venire assunte immediatamente o venire retribuite in un certo modo etc. e si aspettano che tutti le vedano come geni e tutte queste cose qua, ma questo è un problema in tutti i campi. E poi le persone sono poco sensibili sul fatto che nessuno vuole una cozza su un lavoro, quindi bisogna mandare e-mail, ci si conosce, ma si deve far capire che tu ovunque vuoi andare saresti un valore aggiunto, è una via di mezzo di sicurezza e astuzia, non so come dire, senza sembrare boriosi, semplicemente è anche una cosa che dovrebbe venire un po’ spontanea -senza fingere- mettersi davvero nella condizione di dire “sì voglio farmi esperienza però effettivamente voglio anche dare una mano, quindi come faccio a propormi di modo che davvero non mi vedi e non mi senti se non per darti una mano”.
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