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Nella moda, la rappresentazione della donna nera è davvero libera dagli standard caucasici?


Il mondo della moda, con i suoi annessi e connessi, non è certo famoso per la sua inclusività. Anche se a detta di molti le cose stanno finalmente cambiando, non si può non voltarsi indietro ed ammettere, con occhio critico e obbiettivo, quanti stereotipi sbagliati e controversi siano stati trasmessi, ma anche quante rivoluzioni sociali siano passate, tra lustrini e paillettes, dalle sue passerelle.


Oggi vogliamo far luce su quella che è stata la raffigurazione della donna nera nella storia della moda, analizzando l’evoluzione storica delle modelle di colore e cercando di capire quali sono stati i problemi nella sua narrazione. Abbiamo aperto il dibattito a tre ragazze, Giulia Bardini, Nazareth Yemane e Caroline Gugliuzzo, tre modelle che ci diranno il loro punto di vista da insider.



Fino agli anni ’70 del XX secolo, le modelle di colore che riuscirono ad emergere, tra passerelle e copertine, furono così poche da essere contate sulle dita di una mano: sono state le icone della moda che hanno scritto, con non poca fatica, l’inizio di una rivoluzione.

Era il 1949 quando, in una vibrante Parigi del post guerra, Christian Dior lasciò un piccolo spazio in passerella per la prima donna di colore, Dorothea Towles Church, una splendida bellezza afroamericana. La comparsa di Dorothea in una sfilata di haute couture francese, diede il via a una lenta, lentissima, rivoluzione. Dopo 10 anni da quel epico giorno, Dorothea conquistò un secondo traguardo sociale, diventando la prima black testimonial di un brand di cosmetica: Maybellin.



Ma furono gli anni '60 a cercare e creare una vera rivoluzione. Le modelle di colore sulla scena erano ancora pochissime, ma iniziavano ad avere più visibilità. L’esclusione razziale nella moda andò lentamente diminuendo, in concomitanza con le lotte civili che portarono nel 1964 ai Civil Right Act, il disegno di legge che vietò la discriminazione razziale sul posto di lavoro, nelle scuole e nelle aree pubbliche. Queste leggi rappresentarono una svolta epocale e il mondo della moda non poteva (né voleva) non rispondere adeguatamente, così, solo due anni dopo, la prima modella afroamericana conquistò la copertina di Vogue. Nel 1966 sulla cover di Voue Uk, (scattata da David Bailey), trionfò Donyale Luna.

Dall’inizio dei ’70 alla fine degli ’80, l’egemonia della donna bianca nella moda andò attenuandosi sempre più, e molte modelle di colore riuscirono ad accedere all’elitario mondo delle passerelle e dei servizi fotografici. Furono gli anni dei grandi nomi come Katiti Kironde, Naomi Ruth Sims, Pat Cleveland, Sandi Collins e Beverly Johnson.

Il boom delle modelle nere arrivò però solo negli anni ’90, anni in cui furono portate nell’Olimpo della moda tra più celeberrime top model della storia, come Naomi Campbell o Tyra Banks. La loro rivoluzione fu quella di elevare la semplice figura di modella, facendola diventare star.


Dopo aver ripercorso molto brevemente la storia delle modelle di colore nella moda, non possiamo che soffermarci e fare una piccola constatazione. Sapete cosa hanno in comune tutte le modelle che abbiamo citato fin ora? sono alte, magre, statuarie, dai tratti delicati e dai cappelli fluenti; belle sono bellissime (certo!) ma non vi sembra che, nella moda, la rappresentazione della donna nera si avvicini troppo agli standard caucasici? dov’è tutto ciò che davvero rappresenta le donne di colore? Come è possibile che nessuna di queste donne sia stata ritratta fiera nei suoi capelli afro naturali? Certamente un discorso di questo tipo era impossibile pensarlo negli anni '50, ma negli ultimi vent'anni, dove è stata la rappresentazione dell'identità afro nella moda?


Oggi le cose sembrano notevolmente cambiate: la moda vuole affermare più libertà nell'espressione della bellezza afro e nell'esaltazione dei suoi tratti tipici, ma questo positivo mutamento di narrazione è dovuto a un reale intento o è uno strumento di propaganda?

Abbiamo deciso di chiedere un parere a 3 modelle italiane non bianche, chi meglio di loro può sapere cosa accade davvero nel mondo della moda? La domanda che abbiamo posto loro è sempre la stessa: “Quanto credi che sia inclusiva, ad oggi, la moda nella rappresentazione della donna di colore?"



Giulia Bardini: L'inclusività, termine nuovo per tanti, sconosciuto per alcuni e che racchiude argomentazioni ben più profonde della moda in sé per sé. Anche per le case di moda questo termine non passa più inosservato, in quanto la politica di inclusione è maggiormente e fortemente caldeggiata in tutti i settori (non solo per la donna "di colore" quanto anche per la donna "curvy" ed altro che non sto a citare). Se da un lato questo mi fa enormemente piacere perché significa che i tempi stanno iniziando ad essere maturi per l'accettazione "dell'altro" in senso lato, penso anche che spesso questa inclusione sia strumentalizzata (prendo ad esempio gli ultimi spiacevoli avvenimenti razzisti accaduti in USA come quello di George Floyd), non vorrei quindi che questo richiamare e mostrare il "diverso" dallo standard sia in realtà un palliativo del momento. Tutto questo mi fa pensare: l'inclusività nella moda va di moda? Anche se dovessimo considerarla come tale, è certamente un dato positivo in quanto finalizzato ad uno scopo sociale costruttivo. Credo nelle buone intenzioni dei brand che sviluppano campagne pubblicitarie inclusive, ma allo stesso tempo penso, quanto può servire una campagna pubblicitaria con donne nere se poi all'interno della società non cambia il sistema? In tutto questo altalenare di pensieri mi rincuora se non altro vedere alcuni esempi di donne (vedi Adut Akech) che cercano di portare sotto gli occhi di tutti (e in questo l'inclusione asserve veramente all'inclusività) fatti e situazioni che ai nostri giorni hanno dell'incredibile, e usano la loro fama per smuovere la gente a porsi domande e riflettere su situazioni a volte critiche del popolo africano.



Nazareth Yemane: Parto col dire che per me l’inclusività é un concetto astratto che al momento non trova la propria concretizzazione, men che meno nel mondo della moda.

Vuol dire letteralmente estendere il godimento di un “diritto” o la partecipazione ad un sistema a quanti più soggetti possibili; il che collide con le regole “implicite” dell’ambiente spesso elitario in cui vige il “you can’t sit with us” e che quindi non include. Questo almeno se si fa l’esperienza in prima persona.


A livello istituzionale invece, l’inclusività delle donne nere nell’industria della moda italiana è proprio agli stadi embrionali (io non ne vedo molte in giro, le poche top model a parte). Molti brand italiani stanno iniziando ora ad utilizzare modell* ner* ma non saprei dire se è fatto genuinamente o se è una scelta indotta dalle pressioni mediatiche a cui sono sottoposti. Però non possiamo sempre disquisire sulle intenzioni dietro ad una scelta, in questo caso non è nemmeno rilevante, l’importante è vedere più rappresentazione. Uno scambio: l’industria può sentirsi a posto con la propria coscienza e noi vederci rappresentat*.

Però al momento non siamo ad un punto soddisfacente di inclusività per le donne nere, anzi.



Caroline Gugliuzzo: Rappresentazione non significa necessariamente inclusione. È questo forse il messaggio più importante che deve passare nel mondo della moda (e non solo). Per anni, secoli, i canoni di bellezza in tutto il mondo sono stati dominati da modelli occidentali, e cosí, quasi all’improvviso, nei i siti web nei cartelloni, perfino nelle pubblicità alla tv compaiono persone di colore. Un po’ messe lì come se dovessero starci per forza. Io stessa se guardo alla mia esperienza personale posso dire con certezza di essermi sentita così almeno una volta. Lavorando come modella per uno shooting, ho avuto la sensazione di essere stata chiamata solo per “rappresentanza” e non per reali motivi di inclusione. Allo stesso tempo mi viene da chiedermi come realmente si possa concretizzare un concetto così complesso come quello dell’inclusione, specialmente in un mondo particolarmente “esclusivo” come la moda. È forse vero che ogni cambiamento che mira all’inclusione parte dalla rappresentazione ma il processo non si può e non deve fermarsi qui. Penso infine che discorsi troppo sofisticati e complessi come questo, siano a tratti controproducenti per l’empowerment di tutti i tipi di identità che a lungo sono state trascurate. Il vero cambiamento si realizzerà quando questi “formalismi” e rappresentanze non saranno più considerati necessari ma automatici.



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