Dagli studi in antropologia e migrazione al sex work, Giulia Zollino è un'educatrice sessuale e operatrice di strada che a colpi di PEM PEM scardina preconcetti e moralismi relativi al lavoro sessuale, facendo divulgazione ed informazione attraverso il suo preziosissimo profilo Instagram. A Giulia piacciono Elettra Lamborghini, il reggaeton femminista e il prosecco. Non le piacciono la gerarchie tra puttan*, il campari e Salvini. L'abbiamo intervistata rispetto a lavoro sessuale, stigma e molto altro.
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Ciao Giulia, inizierei subito lasciandoti lo spazio per presentarti a Kube. Raccontaci un po’ chi sei e di che cosa ti occupi.
Il mio percorso accademico inizia a Bologna, dove ho studiato antropologia. A partire da qui ho poi deciso di specializzarmi in due ambiti: il primo è quello delle migrazioni, sul quale ho fatto un master e l’altro è invece l’educazione sessuale, per cui ho fatto un corso all’istituto di ricerca e formazione a Firenze. Nel concreto ora mi occupo quindi di sessualità e lavoro sessuale su più ambiti e livelli, tant’è che a volte è un po’ difficile mettere insieme tutti i pezzi. Per quanto riguarda il lavoro sessuale, sono operatrice dell’unità di strada e faccio occasionalmente sex work, ho poi creato questo profilo su Instagram (il suo profilo personale @giuliazollino, ndr) di divulgazione e sensibilizzazione relativamente a queste tematiche. Per quanto riguarda invece l’aspetto dell'educazione sessualità, lavoro soprattutto con associazioni creando dei percorsi di promozione della salute sessuale.
Entriamo ora nel vivo del discorso, quindi di che cosa parliamo quando parliamo di sex work? Sex work e prostituzione sono sinonimi?
Storicamente parlando, il termine sex work nasce alla fine degli anni 70 con un duplice scopo: quello di far capire che si stava trattando di un vero e proprio lavoro e quello di trovare una terminologia che fosse il più neutra ed inclusiva possibile, sia dal punto di vista del genere, sia relativamente alla diversità delle varie tipologie di servizi.
Quando parliamo di sex work parliamo fondamentalmente di uno scambio sesso-economico. In questo senso, le componenti dello scambio sono da un lato un servizio sessuale (dove la parola sessuale è intesa in senso molto ampio, quindi non considerando unicamente il sesso penetrativo, fisico e diretto) e dall’altra una retribuzione economica, sia essa in forma di denaro o in forme di regalo.
Stiamo dunque parlando di un termine ombrello che include davvero tantissime possibilità, le quali vanno dalla cam all’incontro fisico – che può avvenire su strada o in casa, dal porno, alla creazione di contenuti amatoriali che poi possono essere venduti su piattaforme come onlyfans, manyvids e simili, sino alla vendita di mutandine usate.
Per me sì, sex work e prostituzione sono sinonimi. Questo perché non voglio continuare ad attribuire un significato negativo a termini come prostituzione, puttana e a tutti quelli che allo stesso modo hanno storicamente sempre acquistato questo accento dispregiativo. Sex work e prostituzione rappresentano quindi per me due modi diversi per esprimere la stessa cosa che utilizzo in maniera intercambiabile, anche perché odio quando poi si crea quella gerarchia (la cosiddetta whorearchy, potete leggerne in questo bellissimo post, ndr) per cui la prostituta sta ai piedi della piramide, mentre invece la escort o la cam girl ne occupano la punta.
Questione legalità: in Italia è legale fare sex work?
Sì. In Italia abbiamo una legge, la legge Merlin, che risale al 1958 (*sottolinea la data, scandendo bene l’anno e ripetendolo un paio di volte con l’ironia tipica di chi ride per non piangere*). È quindi passato un bel po’ di tempo, le cose sono molto cambiate, così come sono mutati i modi, gli spazi e i luoghi del sex work, indicatori che dovrebbero farci capire che bisognerebbe cambiare questa legge.
Dicevo quindi che è legale, ma fino ad un certo punto. Questo testo di legge fa infatti molto riferimento alla prostituzione per com’è tradizionalmente intesa, perciò al contatto diretto tra sex-worker e cliente in strada o in casa, proprio perché appunto è una legge del ’58 che non tiene conto di tante altre modalità oggi presenti.
Fondamentalmente l’incontro è legale. Ciò che non è legale sono lo sfruttamento, l’induzione e il favoreggiamento, reati che sono stati introdotti con la legge Merlin che però nel momento in cui entra in vigore chiude anche tutti i bordelli fino ad allora esistiti. Il punto focale della questione è il fatto che i confini dei reati sopracitati non sono per niente chiari. Anche condividere un appartamento con altre lavoratrici al fine di supportarsi ed assicurarsi di lavorare in condizioni più sicure, infatti, diventa un problema perché le stesse lavoratrici possono essere accusate di favoreggiamento o sfruttamento, così come diventa rischioso per lo stesso motivo per i proprietari di casa che affittano lo spazio e per chiunque favorisca l’attività di sex work in modo diretto. Ci sono infine moltissime ordinanze comunali che multano le persone in strada e i clienti, quindi fondamentalmente non viene detto che è illegale ma in qualche modo è come se lo fosse.
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Una delle tematiche che affronti spesso su Instagram è quella dello stigma legato al sex work. Anzitutto di quale stigma stiamo parlando e, secondariamente, in che modo questo occupa una posizione centrale in ambito di sex work?
Lo stigma legato al sex work è multidimensionale e plurale perché colpisce varie soggettività, agendo in direzioni e su livelli diversi. Anzitutto colpisce chi fa sex work, è quindi uno stigma che arriva dall’esterno e colpisce chi vende servizi sessuali, ma non solo. Esso trova infatti applicazione anche all’interno del mercato sessuale stesso, facendo sì che si produca la gerarchia tra sex worker per la quale è come se ci fossero dei lavori sessuali e delle tipologie di servizio più accettabili e rispettabili di altri. Un esempio che in questo senso è particolarmente sentito, specie in Italia, è lo stigma legato a chi offre un servizio per così dire ‘completo’ –anche se è una parola che mi fa schifo– che appunto viene giudicata in un certo senso più puttana di altre che invece forniscono altri servizi.
Parliamo anche di uno stigma che viene interiorizzato da chi fa sex work, chiaramente come effetto di ciò che proviene dall’esterno ma che costituisce una realtà concreta per molte persone e che le porta a svalutarsi, a non sentirsi abbastanza, finanche a credere di non meritare diritti.
Un'altra forma che lo stigma acquista è quella che colpisce chi compra servizi sessuali (indubbiamente legata al primo stigma di cui abbiamo parlato) e cioè il cliente, il quale per altro viene stigmatizzato unicamente perché va con una sex worker, altrimenti non subirebbe alcun tipo di stigma di per sé. In questo senso, ascoltavo una conferenza su YouTube tenuta da una sociologa spagnola di nome Paula Sanchez che illustrava proprio come
lo stigma che colpisce la puttana sia identitario e costitutivo, vale a dire che è la puttana è puttana sempre, tutti i giorni, h24, mentre invece quello del cliente sia circostanziale e legato alle situazioni, esso esiste cioè quando il cliente è tale, ma nei momenti in cui non lo è svanisce.
Tra l’altro mi sento di fare un appunto rispetto al termine cliente, che si presenta di per sé in modo super neutrale, quando invece per parlare di sex work esistono tutta una serie infinita di termini che conosciamo (puttana, mignotta, zoccola e via dicendo).
La forma ultima dello stigma va poi a colpire la famiglia, gli amici, le amiche e comunquet utto quello che è il contesto quotidiano di chi fa sex work. Nell’ultimo numero di Frisson (Frisson magazine, magazine di sessualità, piacere, dirittti e intersezionalità con cui Giulia collabora, ndr) abbiamo per l’appunto intervistato Nicole Castillo, ragazza argentina figlia di una sex worker che ci ha raccontato dello stigma della figlia di puttana. Una componente sicuramente vissuta in modo diverso perché siamo nella sfera degli effetti che produce lo stigma madre, ma in ogni caso custode di molte difficoltà nel processo di accettazione di essere figlia di una sex worker e di interiorizzazione dello stigma.
Il motivo per cui lo stigma occupa una posizione centrale è proprio il fatto che è una dimensione che accomuna tutte le persone che fanno sex work, anche se come dicevo in maniera diversa l’una dall’altra e qui mi riallaccio al concetto di gerarchia che citavo prima. Sicuramente un uomo cis gender che fa sex work è molto meno stigmatizzato di una donna, sia essa trans o cis, che fa sex work, quindi esiste una variazione, ma lo stigma si sente sempre e comunque.
A livello pratico, quali sono gli effetti dello stigma?
Gli effetti sono tantissimi, alcuni sono più visibili, altri meno e vanno dalla violenza verbale e quindi dal sentirsi urlare ‘puttana’, ‘non vali un cazzo’ per strada o nei commenti se lavori online, alla violenza fisica. Ci sono tanti episodi di sex worker ammazzate, aggredite in quanto sex worker (proprio ieri, 17 dicembre, è stata la Giornata internazionale contro la violenza nei confronti delle persone che fanno sex work, ndr). Spesso si intersecano quindi le cose e subentra il discorso dell’essere donna, talvolta donna trans, quindi si parla di una violenza che arriva da una serie di oppressioni che non sono solamente legate al tipo di lavoro che una persona fa.
Altri effetti sono più sottili. Lo stigma legato al sex work si traduce senza dubbio anche in difficoltà di accesso a dei servizi sul territorio. Ad esempio, nel periodo di marzo/aprile di quest’anno non potendo lavorare, le/i sex worker sono diventate/i uno dei target dell’iniziativa stanziata dai comuni (anche se non da tutti) che prevedeva l’assegnazione di pacchi alimentari. Quello che è successo è che quando io ho riportato questa possibilità ad una delle donne che conoscevo che lavoravano in strada, la sua risposta iniziale è stata positiva, salvo poi essere ritrattata per la paura che si scoprisse che faceva la puttana.
Questo è quindi un altro degli effetti dello stigma: avresti un diritto ma in realtà non ce l’hai perché se ti esponi e lo richiedi puoi venire stigmatizzata e ne hai paura, pertanto vieni privata di tutta una serie di possibilità.
Un altro effetto è quello dell’invisibilità. Spesso molte persone conducono una doppia vita, devono vivere con il peso di dover mentire e credo che uno degli effetti dello stigma sia proprio quello di volerti far rimanere invisibile e zitta. Prima di iniziare a parlarne liberamente, a me era capitato molte volte di voler raccontare della mia esperienza di sex work, per quanto nelmio casoessa sia occasionale e molto privilegiata, ma all’inizio pensavo fosse meglio starmene zitta, perché temevo che magari una persona potesse prenderla male e non essermi più amica o che in ambito lavorativo potessero licenziarmi.
Alcune delle tematiche che vengono spesso toccate da chi si dichiara contrario al sex work coinvolgono i concetti di dignità, vendita del corpo e vittimizzazione di chi offre uno o più servizi legati al sex work. Ti va di spiegarci in che modo queste siano legate l’una all’altra e, soprattutto, di dirci in quanto sex worker cosa pensi tu della loro attribuzione al sex work?
Possiamo effettivamente dire che i temi legati a dignità, morale, oggettificazione, mercificazione del corpo della donna, vittimizzazione e sfruttamento emergano soprattutto quando si parla di sex work.
Per fare un esempio, io ho Google alert attivato con la parola ‘prostituzione’ e facendo un giro nelle principali testate di informazione i temi di vendita del corpo, vittimizzazione, sfruttamento e illegalità sono paroleche ritornano in continuazione in tutti gli articoli. Sembra davvero che senza queste componenti il sex work non ci sia, che siano due ambiti strettamente collegati. Questo avviene perché purtroppo ci si concentra solamente su una parte di questo termine che è ‘sex’, piuttosto che su ‘work’, attribuendogli così troppi significati, valori personali, cose che hanno a che fare con l’emotività di ognuna. Si tende molto a fare una discussione su un piano simbolico, etico-morale e molto meno su un piano pratico. Che ci piaccia o no il sex work esiste e non cesserà di farlo, pertanto ci si dovrebbe concentrare sul migliorarne le condizioni.
Ci sono tutta una serie di concetti estremamente sbagliati come appunto quello della vendita del corpo.
In realtà il corpo non si vende, bensì si vende un servizio, cosa che pare essere valida per tutti i lavori tranne che per il sex work perché questo coinvolge il sesso e quindi fondamentalmente perché c’è la fica – sono infatti questioni che emergono principalmente quando si parla di sex work svolto da donne.
Nelle interviste che ho sentito io rispetto al mondo del sex work maschile, sembra che questi concetti non esistano e che le reazioni siano un po’ quelle del ‘sei un gran figo’, ‘il lavoro più bello del mondo per un uomo’, escludendo quindi tutta quella retorica pietistica e paternalistica di cui sopra
Rispetto al tema della dignità, sembra che il lavoro debba essere la realizzazione personale di ogni individuo, che ci si debba sentire bene, farlo con passione e quant’altro,
ma quante volte facciamo dei lavori che ci fanno schifo solo per tirare a campare? E allora perché il sex work non può essere concepito allo stesso livello di altri lavori, magari precari e non regolarizzati dell’economia informale? Pare esserci tutto un discorso a parte relativo al sex work, perché come dicevamo prima c’è di mezzo il sesso ed è quello il problema.
Infine, per quanto riguarda il discorso su vittimizzazione e sfruttamento, diventa quasi banale specificare che, come tanti altri lavori precari dove non esistono tutele per le lavoratrici e i lavoratori, è perfettamente normale che si producano delle situazioni di sfruttamento. Ciò non significa che sia bello, ma semplicemente che esiste. Quindi sì, ci sono delle persone che sono vittime di sfruttamento, ma non rispecchiano la totalità di quelle che sono coinvolte nel lavoro sessuale.
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Prima di concludere, tornerei ad una delle primissime domande che ti ho fatto rielaborandola ora in una chiave più personale. All’inizio ci hai dato quella che possiamo definire una definizione scientifica di sex work, ora invece vorrei sapere che cosa significhi per te fare sex work.
Fare sex work per me significa prima di tutto fare un lavoro, punto. Un lavoro senza troppi significati e in maniera molto pratica: hai bisogno di qualcosa, hai un progetto che sia anche semplicemente quello di sopravvivere e non hai troppe opzioni o comunque quella del sex work ti sembra tra le opzioni che hai quella più vantaggiosa. Lo fai. Facile (non il sex work ma la scelta di farlo come si sceglie qualsiasi altro lavoro, ndr), pratico.
Per me personalmente c’è anche una componente che attinge al superamento dei propri limiti. Io ogni tanto parlo di empowerment collegato al sex work e so che questo spesso non è ben visto, ma è la mia personale esperienza e credo sia legittima e degna quanto le altre.
Io sono una persona sicuramente privilegiata: sono giovane, bianca, con un fisico più o meno nella norma (*fa una pausa atta a commentare questa ‘norma’ ma si rende subito conto che diventerebbe un discorso che purtroppo non abbiamo modo di fare oggi e passa oltre*), prevalentemente etero. Insomma ho tutta una serie di privilegi, ciò non significa che sia facile, anche perché odio questa retorica del cazzo per cui sembra che per le persone privilegiate sia tutto fighissimo, quando invece la vita è una merda per tutti e molti ambiti della vita personale di ognuno non li conosciamo nemmeno. Fine della polemichetta.
Dicevo quindi che per me, da persona privilegiata, il sex work è sempre stato qualcosa che ho fatto e farò occasionalmente, nel senso che per ora non ho intenzione di farne la mia professione principale.
Io ho fatto vari tipi di sex work perché mi piace sperimentare e mi aiuta in quello che è appunto il motivo per cui ho iniziato a farlo e cioè a superare dei limiti e dei disagi relativi soprattutto al mio corpo, ma anche al mio carattere.
Sono infatti cambiata tanto da quando ho iniziato a farlo, non solo per questo chiaramente, ma io lo collego sempre all’empowerment, alla stregua di molte altre esperienze che ho fatto e che mi sono servite per crescere e migliorare alcuni aspetti di me.
Questa credo sia una cosa che tra l’altro avviene in tutti i lavori, nel mio caso anche parlando della creazione di contenuti su Instagram, per esempio: questo concetto dell’empowerment lo collego a tutte quelle esperienze lavorative che in qualche modo ti fanno bene, ti creano benessere e ti fanno uscire dalla tua zona di comfort.
Per finire, consigliaci un libro e/o un film/documentario che definiresti fondamentali per avvicinarci al sex work e comprenderne le dinamiche reali.
Un libro che io consiglio sempre come punto di partenza è ‘Vendere e comprare sesso’ di Giulia Garofalo, un saggio molto breve e preciso, secondo me davvero ben fatto e semplice da comprendere. C’è poi un altro libro che a me è piaciuto molto e che si intitola ‘Ritratto a tinte forti’ di Carla Corso e Sandra Landi. È l’autobiografia della prima, che condivide la sua storia con Pia Covre, con la quale ha fondato il comitato per i diritti civili delle prostitute che nasce negli anni 80 ed è stato un punto di riferimento per il movimento italiano delle persone che fanno sex work. Terzo e ultimo libro (in inglese e in spagnolo), è ‘Revolting prostitutes’ di Juno Mac e Molly Smith, due sex worker di Londra che fanno parte dell’associazione SWARM (Sex Workers Advocacy and Resistant Movement, ndr). All’interno spiegano vari modelli legislativi dal loro punto di vista, senza entrare nelle solite retoriche vecchie e stantie e senza romanticizzare il sex work, fornendo una bella visione anche sulla tratta. C’è infine una serie che ho visto da poco e che si chiama Veneno. È la storia di Cristina La Veneno, prima donna trans sex worker ad apparire in tv in Spagna e a diventare famosa. Questo docu-serie non parla solo di sex work, ma presenta una narrazione molto ricca da questo punto di vista, mostrando il lavoro sessuale secondo me in maniera super realistica.
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