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KUBE

Cosa ci hanno insegnato le riviste teen?

Da quando ho imparato a leggere, le riviste sono sempre state una parte della mia vita, della mia routine. La mia prima rivista è stata Topolino. Il sabato mattina, con i miei genitori e il cane, attraversavamo il parco per andare all’edicola e iniziavo immediatamente, ancora prima di rientrare a casa, a sfogliare il fumetto, quasi volessi assorbirne i contenuti. Crescendo ho iniziato ad espandere i miei orizzonti letterari: l’estate con le amiche del mare™ divoravamo i numeri di W.i.t.c.h., un brillante ibrido, parte fumetto (che narrava le vicende di un gruppo di ragazze dotate di poteri soprannaturali legati agli elementi) e parte classica rivista teen, pieno di articoli, consigli e quiz su temi come scuola, amicizie, amore, beauty. Da lì sono passata alle riviste teen “vere e proprie” – una categoria abbastanza ampia che, almeno per come la definisco io, comprende diverse pubblicazioni da quelle a stampo più scandalistico, molto centrato sulla celebrity culture (tipo Cioè) alle cose un po’ più glamour e internazionali come Seventeen o Teen Vogue.


l'inarrivabile "W.i.t.c.h."

Diverse testate avevano toni leggermente diversi e i loro contenuti variavano (almeno superficialmente) per riflettere i trend e le sensibilità contemporanee, ma i temi trattati, erano sempre più o meno gli stessi: beauty, moda, amore, relazioni e celebrities. Molto simili a quelli delle riviste per adulti (quelle generaliste, senza uno specifico focus tematico che vengono chiamate semplicemente “femminili”) ma adattati ad un target adolescenziale generalmente tra i 10 e i 14 anni, poco più giovane delle modelle e celebrità rappresentate al loro interno che incarnavano l’ideale al quale aspirare.


Nel corso della mia adolescenza, ho consumato queste riviste (che si trattasse di quelle propriamente per teen o delle loro “sorelle maggiori” alle quali sono passata attorno ai 14-15 perché ormai “ero grande”), con una notevole voracità, come se cercassi qualcosa di importantissimo tra quelle pagine. Le trattavo come dei manuali di vita, delle guide per come diventare la ragazza e poi la donna perfetta, o per lo meno una donna adeguata, corretta.


"Top Girl" marzo 2004

Non è un caso se quasi tutti gli articoli erano prescrittivi: “come vestirti per il primo giorno di scuola”, “come conquistare il ragazzo dei tuoi sogni”, “come avere una pelle perfetta.” Non che li prendessi alla lettera - anzi non credo di aver mai consciamente messo in pratica questi preziosi consigli - ma ne assorbivo i contenuti come una spugna.


Probabilmente, potendo scegliere, non sarebbero state quelle (o comunque non solo quelle) le domande che avrei posto. Ma erano le uniche alle quali trovavo risposte. Non c’era molto materiale culturale rivolto a ragazze adolescenti. Queste riviste invece parlavano direttamente a noi. Era questo a renderle speciali, a legarci a questi oggetti che rileggevamo continuamente, strappandone le pagine per attaccarle ai muri, sui quaderni, nel diario.


La loro lettura era un’esperienza intima e privata ma anche sociale. Molte delle mie amiche (e anche alcuni amici) le leggevano, spesso ce le prestavamo, confrontavamo i risultati dei quiz, ci leggevamo gli oroscopi, ridevamo anche di alcuni pezzi che ritenevamo ridicoli. Ci permettevano di affrontare temi “delicati” o tabù (come sesso e relazioni) in maniera meno diretta, evitandoci di porre domande o dire cose che avrebbero rivelato la nostra inesperienza o scarsa conoscenza. Erano come dei testi sacri, attorno ai quali si formavano dei rituali e si instaurava un’aura di segretezza. Esistevano delle regole di condotta. Ad esempio, non le avrei mai portate a scuola, né fatte vedere ai miei genitori – non che si sarebbero opposti (almeno non credo) ma perché era bello avere qualcosa di mio, di nostro, di esclusivo.



Ci saremmo comunque preoccupat* così tanto delle nostre cotte e del nostro aspetto se non fosse stato l’unico argomento di cui parlavano i media rivolti a noi? Onestamente non saprei. Sicuramente, come imparavamo a parlare di queste cose era estremamente problematico. Conducendo piccoli sondaggi e parlandone con diversi amici cresciuti sia in Italia che all’estero (per lo più USA e Francia), ho notato che tanti come me ricordano con affetto e nostalgia le riviste della loro adolescenza ma ritengono anche che abbiano contribuito a trasmettere messaggi che hanno avuto impatti negativi (e spesso duraturi) sulla loro autostima e percezione di sé. Molti si sentivano spinti ad adeguarsi a specifici ed irraggiungibili canoni estetici. Sia esplicitamente che implicitamente, ci veniva fatto capire che la donna ideale era magra, bianca, abile, cisgender, ect. e che era nostro dovere cercare di avvicinarci quanto possibile a questo ideale, che ogni deviazione era un fallimento, una mancanza, un difetto, qualcosa di cui vergognarsi.


"Seventeen" marzo 2005

Inclusività e diversità non erano evidentemente le preoccupazioni centrali dei redattori di queste riviste. Seppure periodicamente emergono controcorrenti fomentate dalla voglia di riappropriarsi della narrativa e dei contenuti considerati adeguati alle ragazze adolescenti, in modo che rispecchino i loro reali interessi e le sensibilità del momento.


Ad esempio, nel 1988 negli USA, Sandra Yates fondò Sassy, una rivista teen che si poneva come l’alternativa punk alle pubblicazioni mainstream come Seventeen e YM. Sassy copriva i classici temi delle riviste teen ma con una lente femminista e mischiandoli ad elementi della cultura indie (sesso, droga e rock’n’roll). Fu considerata rivoluzionaria all’epoca, suscitando anche la rabbia di molti genitori che tentarono di boicottarla. Le autrici Kara Jesella e Marisa Merz le hanno addirittura dedicato un libro intitolato How Sassy Changed My Life: A Love Letter to the Greatest Teen Magazine of All Time dove ripercorrono la storia della testata e del suo legame con i dibattiti politici e sociali dell’epoca (tra il 1988-1996) e valutano l’impatto che Sassy ha avuto sui suoi lettori e sul futuro dell’editoria per ragazze.


"Sassy" magazine, aprile '92

Nonostante ciò, nel corso della mia adolescenza (anni 2000 e 2010) ho sempre visto e consumato per lo più riviste che col femminismo e la cultura indie avevano ben poco a che fare. Cos’è successo? Forse se sembra di tornare sempre al punto di partenza è a causa del presupposto (persistente e misogino) che le teenager sono frivole e sciocche e che quindi un prodotto rivolto a loro deve essere frivolo e sciocco. Finché le persone che prendono le decisioni (i caporedattori, ma soprattutto i proprietari delle testate e gli investitori) continueranno ad aggrapparsi a questo pregiudizio non romperemo il ciclo.


È una convinzione più insidiosa di quello che si potrebbe pensare. Spesso noi stess* la adottiamo senza per forza rendercene conto. Siamo condizionat* dalla nascita ad associare il femminile con il superfluo, a disprezzarlo. Allo stesso tempo però viene dato per scontato che in quanto giovani ragazze ci dovremmo interessare a questi temi “femminili.”


Forse sarebbe il caso di bruciare tutte queste riviste, liberacene per sempre e non pensarci mai più. Ma per tanti di noi questo ammonterebbe ad una sconfitta. Perché dobbiamo rinunciare agli aspetti positivi, a quel senso di community, ad avere qualcosa di nostro, che si rivolge a noi, che ci prende sul serio? Davvero dobbiamo ripudiare alcuni argomenti solo perché secoli fa dei vecchi barbuti li hanno assegnati alla sfera “femminile” e pertanto decretati meno validi?


Non è detto. Ci sono stati continui tentativi da parte delle teen stesse di riappropriarsi delle riviste rivolte a loro. Nel 2010, Tavi Gevinson (scrittrice editor e attrice allora blogger 15enne) - aiutata dalla prima editor di Sassy, Jane Pratt - lanciò Rookie, una rivista digitale per teenager fatta in gran parte da teenager, che copriva svariati temi dalla moda alla pop culture alle questioni sociali, sempre in un’ottica femminista.


Tavi Gevinson, fondatrice di "Rookie"

Ma anche prima di Tavi e prima di internet, le teen hanno iniziato a produrre i loro propri contenuti, ad esempio con le zine. Il concetto di zine (o fanzine come venivano chiamate all’epoca) nasce negli anni 30 nell’ambiente della fantascienza. Erano riviste indipendenti a circolazione limitata e generalmente realizzate con mezzi di fortuna dai fan del genere che si ispiravano ai loro racconti preferiti. In seguito sono state adottate dalla cultura punk negli anni 70 e 80 che le hanno dato un look più grungy e DIY per poi essere appropriate dalle Riot Grrrl e i vari movimenti femministi degli anni 90 che hanno influenzato. Rappresentano uno strumento pratico, a basso costo, accessibile e soprattutto libero di opporsi alle narrative portate avanti dai media tradizionali.


Anche oggi esistono moltissime zine prodotte da adolescenti per adolescenti che tendono a riprendere l’estetica anni 90. Alcuni sono esclusivamente cartacei, altri digitali, e altri ancora bilanciano i due formati.


Questo testimonia che la nostalgia per i teen mag non muore con la mia generazione. Si, certo, i teen oggi hanno accesso a tutte le informazioni che vogliono in meno di un istante ma non vedo questo come una minaccia. Più delle informazioni stesse (che anche 15 anni fa avrei potuto probabilmente trovare altrove) erano gli aspetti comunitari, ritualistici, social che ruotavano intorno a quelle testate che mi attirava.


Quindi non credo che queste riviste siano destinate a scomparire. Piuttosto evolvono, si diversificano, diventano più fluide. Online tutto coesiste nello stesso spazio ed è difficile distinguere i diversi tipi di contenuti. Le categorie si dissipano. Forse stiamo finalmente riuscendo a liberarci delle distinzioni tra temi “maschili” e “femminili”, “colti” e “non colti” e altri dualismi spesso informati da nozioni sessiste, classiste, razziste, etc. per poter creare delle realtà davvero inclusive.


Speravo di risolvere la mia relazione conflittuale con le riviste teen, che ricordo con grande affetto pur riconoscendo che hanno contribuito a formare aspettative e parametri sballati che passerò probabilmente tutta la vita a smantellare. Direi che non ci sono proprio riuscita: il conflitto rimane, però va bene così, è arrivato il momento di accettarlo. Non posso tornare indietro e correggere le riviste che ho letto, ma posso interrogarmi su come mi hanno influenzata, provare ad imparare da quell’esperienza e cercare di adattare queste lezioni al contesto presente, evitando di riproporle alle future generazioni. Ed è questo che tante realtà editoriali (come Kube) – piccole o grandi, cartacee o digitali – cercano di fare.

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